I tradizionali fattori di rischio per le interstiziopatie polmonari lavoro-correlate comprendono: l’asbesto, la silice cristallina, metalli, fibre artificiali, polveri organiche e microorganismi. Tuttavia, negli ultimi anni, si è iniziato a focalizzare l’attenzione, soprattutto nel Nord America, su un potenziale nuovo fattore di rischio: il “Flock”. Con tale termine si intendono piccole e corte fibre, utilizzate in moltissimi ambiti: industria tessile, automobilistica, dei giocattoli…, con lunghezza variabile tra 0,2 e 5 mm, prodotte attraverso un processo continuo da filamenti di nylon, rayon o poliestere. Questi filamenti vengono trattati con additivi (acido tannico, etere di ammonio…) ed a volte colorati prima di essere tagliati da una “taglierina rotativa ad alta velocità” nella “Flocking room”. Questo metodo è molto veloce, ma poco preciso e netto nel taglio, producendo così fibre di lunghezze diverse e con superfice irregolare per la presenza di piccoli filamenti (<10 micron) che protrudono e possono poi staccarsi, disperdersi nell’ambiente ed essere inalati. Le fibre vengono poi asciugate, centrifugate, separate a seconda delle dimensioni e imballate. Il Flock viene applicato ad alcuni tessuti per renderne la superficie simil-vellutata. Un tessuto di cotone da un lato e di poliestere dall’altro viene fatto passare su rulli dove viene ricoperto da una sostanza adesiva (latice acrilico) nella quale vengono poi incorporate le fibre tramite un campo elettrostatico. Durante questa operazione il Flock è misto a polvere silicea essicante che serve per prevenirne l’agglomerazione. Dopo l’asciugatura il tessuto rivestito può essere sottoposto a stampaggio meccanico e colorato con inchiostri ad acqua o subire altre finiture. Tra una produzione e l’altra (cambio di colore, di dimensione delle fibre ecc.) si procede ad una operazione di pulizia chiamata “blow-down”: i Flock residui rimasti sulle macchine, sul pavimento o sul muro vengono eliminati tramite aria compressa. Le fasi a maggior rischio inalatorio sono quelle svolte nella Flocking room e durante il Blow-down. Dal 1996, in seguito alla richiesta rivolta al NIOSH di indagare sui potenziali effetti del Flock, si incominciò a ipotizzare una correlazione tra l’esposizione a Flock e l’insorgenza di interstiziopatie polmonari. Nel 1997 furono presentati da Kern alla Società Americana di Medicina Toracica i dati preliminari sul “Flock Worker’s lung”. A ciò seguirono altri vari lavori, l’ultimo dei quali conferma il nesso causale tra fattore di rischio e interstiziopatia polmonare. Dal punto di vista clinico i sintomi sono aspecifici: tosse secca accompagnata a volte da febbricola, malessere generalizzato e dispnea ingravescente. È stato dimostrato che tale sintomatologia migliora dopo l’allontanamento dal lavoro oppure con il cambio di mansione in aree non produttive e quindi non esposte al rischio, senza alcuna terapia. La gravità dei quadri patologici riscontrati è molto variabile, da semplici irritazioni delle alte vie aeree con rino-congiuntiviti fino alla fibrosi polmonare. La diagnosi si basa su criteri strumentali: in particolare la tomografia computerizzata ad alta risoluzione (HRTC) del torace può evidenziare infiltrati a vetro-smerigliato, aree di addensamento, micronoduli diffusi e interstiziopatia periferica ad alveare; nel liquido di lavaggio bronco-alveolare (BAL) si riscontra una cellularità atipica con eosinofilia o linfocitosi; alla biopsia polmonare si evidenziano infiltrati linfocitari nodulari peribronchiolari o interstiziali diffusi con bronchiolite linfocitaria e fibrosi interstiziale (ciò suggerisce una risposta immunologica cronica all’inalato). In definitiva si può parlare di “Flock worker’s lung” quando, in seguito ad una accertata esposizione professionale al Flock, compaiano sintomi respiratori persistenti con evidenza di patologia interstiziale polmonare senza migliore spiegazione. Tuttavia gli studi epidemiologici effettuati hanno dei limiti, che vanno dalla limitatezza del campione, alla non esatta quantificazione dell’esposizione, all’eventuale ruolo che possono avere gli additivi utilizzati durante la produzione nello sviluppo della patologia. Al momento risulta fondamentale una attenta sorveglianza sanitaria degli operai esposti per un pronto allontanamento dal lavoro ai primi sintomi; un abbattimento del rischio con modifiche del ciclo produttivo, utilizzo di protezioni respiratorie e di aspiratori; ma soprattutto la ricerca di marker precoci d’esposizione. Ad esempio si sta valutando la possibilità di correlare dati ottenuti con la tecnica dello sputo indotto con quelli evidenziati tramite il lavaggio bronco-alveolare, al fine di porre diagnosi con metodi meno invasivi.

Il Flock: nuovo fattore di rischio per le interstiziopatie polmanari occupazionali

CANDURA, STEFANO
2001-01-01

Abstract

I tradizionali fattori di rischio per le interstiziopatie polmonari lavoro-correlate comprendono: l’asbesto, la silice cristallina, metalli, fibre artificiali, polveri organiche e microorganismi. Tuttavia, negli ultimi anni, si è iniziato a focalizzare l’attenzione, soprattutto nel Nord America, su un potenziale nuovo fattore di rischio: il “Flock”. Con tale termine si intendono piccole e corte fibre, utilizzate in moltissimi ambiti: industria tessile, automobilistica, dei giocattoli…, con lunghezza variabile tra 0,2 e 5 mm, prodotte attraverso un processo continuo da filamenti di nylon, rayon o poliestere. Questi filamenti vengono trattati con additivi (acido tannico, etere di ammonio…) ed a volte colorati prima di essere tagliati da una “taglierina rotativa ad alta velocità” nella “Flocking room”. Questo metodo è molto veloce, ma poco preciso e netto nel taglio, producendo così fibre di lunghezze diverse e con superfice irregolare per la presenza di piccoli filamenti (<10 micron) che protrudono e possono poi staccarsi, disperdersi nell’ambiente ed essere inalati. Le fibre vengono poi asciugate, centrifugate, separate a seconda delle dimensioni e imballate. Il Flock viene applicato ad alcuni tessuti per renderne la superficie simil-vellutata. Un tessuto di cotone da un lato e di poliestere dall’altro viene fatto passare su rulli dove viene ricoperto da una sostanza adesiva (latice acrilico) nella quale vengono poi incorporate le fibre tramite un campo elettrostatico. Durante questa operazione il Flock è misto a polvere silicea essicante che serve per prevenirne l’agglomerazione. Dopo l’asciugatura il tessuto rivestito può essere sottoposto a stampaggio meccanico e colorato con inchiostri ad acqua o subire altre finiture. Tra una produzione e l’altra (cambio di colore, di dimensione delle fibre ecc.) si procede ad una operazione di pulizia chiamata “blow-down”: i Flock residui rimasti sulle macchine, sul pavimento o sul muro vengono eliminati tramite aria compressa. Le fasi a maggior rischio inalatorio sono quelle svolte nella Flocking room e durante il Blow-down. Dal 1996, in seguito alla richiesta rivolta al NIOSH di indagare sui potenziali effetti del Flock, si incominciò a ipotizzare una correlazione tra l’esposizione a Flock e l’insorgenza di interstiziopatie polmonari. Nel 1997 furono presentati da Kern alla Società Americana di Medicina Toracica i dati preliminari sul “Flock Worker’s lung”. A ciò seguirono altri vari lavori, l’ultimo dei quali conferma il nesso causale tra fattore di rischio e interstiziopatia polmonare. Dal punto di vista clinico i sintomi sono aspecifici: tosse secca accompagnata a volte da febbricola, malessere generalizzato e dispnea ingravescente. È stato dimostrato che tale sintomatologia migliora dopo l’allontanamento dal lavoro oppure con il cambio di mansione in aree non produttive e quindi non esposte al rischio, senza alcuna terapia. La gravità dei quadri patologici riscontrati è molto variabile, da semplici irritazioni delle alte vie aeree con rino-congiuntiviti fino alla fibrosi polmonare. La diagnosi si basa su criteri strumentali: in particolare la tomografia computerizzata ad alta risoluzione (HRTC) del torace può evidenziare infiltrati a vetro-smerigliato, aree di addensamento, micronoduli diffusi e interstiziopatia periferica ad alveare; nel liquido di lavaggio bronco-alveolare (BAL) si riscontra una cellularità atipica con eosinofilia o linfocitosi; alla biopsia polmonare si evidenziano infiltrati linfocitari nodulari peribronchiolari o interstiziali diffusi con bronchiolite linfocitaria e fibrosi interstiziale (ciò suggerisce una risposta immunologica cronica all’inalato). In definitiva si può parlare di “Flock worker’s lung” quando, in seguito ad una accertata esposizione professionale al Flock, compaiano sintomi respiratori persistenti con evidenza di patologia interstiziale polmonare senza migliore spiegazione. Tuttavia gli studi epidemiologici effettuati hanno dei limiti, che vanno dalla limitatezza del campione, alla non esatta quantificazione dell’esposizione, all’eventuale ruolo che possono avere gli additivi utilizzati durante la produzione nello sviluppo della patologia. Al momento risulta fondamentale una attenta sorveglianza sanitaria degli operai esposti per un pronto allontanamento dal lavoro ai primi sintomi; un abbattimento del rischio con modifiche del ciclo produttivo, utilizzo di protezioni respiratorie e di aspiratori; ma soprattutto la ricerca di marker precoci d’esposizione. Ad esempio si sta valutando la possibilità di correlare dati ottenuti con la tecnica dello sputo indotto con quelli evidenziati tramite il lavaggio bronco-alveolare, al fine di porre diagnosi con metodi meno invasivi.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/10149
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