A partire dai primissimi anni dell'Ottocento e almeno per tutta la prima metà del secolo il pensiero e l'opera di Giambattista Vico - nel corso del Settecento non particolarmente noti e apprezzati al di fuori della cultura meridionale e dell'ambiente veneto - conoscono un successo senza precedenti: la "Scienza nuova", mai più ripubblicata dopo la morte dell'autore (1744), viene ristampata più volte a partire dal 1801, prima manifestazione di un fervore editoriale destinato a culminare con la silloge vichiana curata da Giuseppe Ferrari. Nel frattempo gli esuli della rivoluzione napoletana del 1799, in particolare Francesco Lomonaco e Vincenzo Cuoco - ma anche epigoni dell'illuminismo lombardo come Giandomenico Romagnosi, insieme ai protagonisti dell'acceso dibattito sull'utilità o meno della storia (Francesco Saverio Salfi, Cataldo Jannelli, Melchiorre Delfico) e, più in generale, la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani dell'epoca - non solo sottolineano l'importanza e l'attualità di Vico, ma ne rivendicano l'eredità, a sostegno di posizioni teoriche e politiche spesso alquanto eterogenee, in non casuale coincidenza con la sua "riscoperta" in ambito europeo. La figura più significativa del vichismo pre-risorgimentale appare però quella di Carlo Cattaneo, sia perché nelle sue opere (dal saggio "Su la Scienza Nuova" alla "Psicologia delle menti associate") la presenza di Vico è particolarmente forte, sia perché in essa sembrano convivere diverse sue immagini: quella del Vico precursore dell'idealismo e dello storicismo otto-novecentesco, quella proto-nazionalistica dell'antichissima sapienza italica e infine la lettura del principio del "verum-factum" come applicazione dell'empirismo baconiano-lockiano alle scienze umane. Il tutto sotto il segno di quel carattere "insieme speculativo e positivo" del pensiero italiano che già allora Cattaneo rivelava come costitutivo dell'identità nazionale.

«Il gran Vico». Presenza, immagini e suggestioni vichiane nei testi della cultura italiana pre-risorgimentale (1799-1839)

COSPITO, GIUSEPPE
2002-01-01

Abstract

A partire dai primissimi anni dell'Ottocento e almeno per tutta la prima metà del secolo il pensiero e l'opera di Giambattista Vico - nel corso del Settecento non particolarmente noti e apprezzati al di fuori della cultura meridionale e dell'ambiente veneto - conoscono un successo senza precedenti: la "Scienza nuova", mai più ripubblicata dopo la morte dell'autore (1744), viene ristampata più volte a partire dal 1801, prima manifestazione di un fervore editoriale destinato a culminare con la silloge vichiana curata da Giuseppe Ferrari. Nel frattempo gli esuli della rivoluzione napoletana del 1799, in particolare Francesco Lomonaco e Vincenzo Cuoco - ma anche epigoni dell'illuminismo lombardo come Giandomenico Romagnosi, insieme ai protagonisti dell'acceso dibattito sull'utilità o meno della storia (Francesco Saverio Salfi, Cataldo Jannelli, Melchiorre Delfico) e, più in generale, la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani dell'epoca - non solo sottolineano l'importanza e l'attualità di Vico, ma ne rivendicano l'eredità, a sostegno di posizioni teoriche e politiche spesso alquanto eterogenee, in non casuale coincidenza con la sua "riscoperta" in ambito europeo. La figura più significativa del vichismo pre-risorgimentale appare però quella di Carlo Cattaneo, sia perché nelle sue opere (dal saggio "Su la Scienza Nuova" alla "Psicologia delle menti associate") la presenza di Vico è particolarmente forte, sia perché in essa sembrano convivere diverse sue immagini: quella del Vico precursore dell'idealismo e dello storicismo otto-novecentesco, quella proto-nazionalistica dell'antichissima sapienza italica e infine la lettura del principio del "verum-factum" come applicazione dell'empirismo baconiano-lockiano alle scienze umane. Il tutto sotto il segno di quel carattere "insieme speculativo e positivo" del pensiero italiano che già allora Cattaneo rivelava come costitutivo dell'identità nazionale.
2002
9788887298345
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