Punto di partenza obbligato di questa relazione è la constitutio Antoniniana, perché, a seconda che si confidi nell’una o nell’altra delle tante interpretazioni del suo dispositivo, si possono proporre, sul tema della cittadinanza romana nel III e nel IV secolo, ricostruzioni storiche sensibilmente divergenti. Se leggiamo il testo del P. Giss. 40 col. I (ll. 7-9: H. n. 2) iuxta propria principia, vale a dire come un documento giuridico, risulta davvero arduo concludere che esso, alla linea 9, proponga una clausola di esclusione (χωρ[ὶς] τῶν [δε]δ̣ειτ̣ικίων). Di conseguenza, al momento, non mi appaiono più persuasive quelle congetture che vorrebbero connetterla all’esigenza – esplicitamente avvertita da Caracalla e dai suoi consiglieri – di salvaguardare l’uso, invalso da tempo, di reclutare 'reparti di specialisti' tra le cosiddette gentes devictae e, dunque, tra i dediticii. Quantunque non dubiti del decisivo rilievo dell'arruolamento dei gentiles, vorrei soltanto sottolineare che – venuta meno, a mio parere, l’urgenza di chiarire chi fossero i dediticii della linea 9 del P. Giss. – risulta, a dir poco, fuorviante individuare, in questo temine, il principale filo conduttore col quale connettere insieme le fonti che riguardano la storia dell’esercito e del reclutamento delle cosiddette unità etniche, dall’età severiana alla fine del IV secolo e oltre. Non di meno – benché radicalmente ridimensionata nella mia prospettiva – la questione dei dediticii e, in primo luogo, dei barbari ridotti alla condizione di dediticii, rimane comunque in campo, perché – come abbiamo già sottolineato – alcuni studiosi ritengono che i numeri, almeno in età severiana, si reclutassero in primo luogo tra costoro. In effetti, però, noi conosciamo un’unica unità di questo tipo chiaramente indicata nella nomenclatura come deditizia (CIL 13. 6592 = ILS 9184: H. n. 9). Una sola testimonianza d’età severiana può sorreggere il peso di quelle congetture che riconnettono – quasi che si trattasse di una vera e propria regolarità – il reclutamento nei numeri etnici alla condizione di barbarus dediticius? Occorre rivolgersi ad altre fonti. Allorché, però, si pongano a confronto i dispositivi giuridici descritti dai testi di Gaio H. n. 7), di Isidoro (H. n. 10) e di Leone Magno (H. n. 11) con i dati che emergono dallo spoglio delle testimonianze di III e di IV secolo, si ha l’impressione che essi non operassero davvero nelle prassi istituzionali di quel tempo. In altre parole, come ha osservato circa venti anni fa Gerhard Wirth, i dediticii non si connotano in ragione del loro comune e uniforme statuto giuridico. In realtà, i casi nei quali Roma, ottenuta la deditio, non abbia ricostituito in quanto tale la comunità sottomessa – così come si riscontra, nel caso del populus SEANO (104 a.C.) grazie alla tabula di Alcantara (H. n. 13) – paiono estremamente pochi. Pertanto nulla ci costringe a pensare che i membri delle popolazioni sconfitte e poi insediate nei tractus fossero per statuto esclusi, in quanto dediticii, dalla possibilità di accedere alla civitas Romana. 2. Dopo la constitutio Antoniniana la cittadinanza romana perse senza dubbio gran parte del proprio fascino e del proprio rilievo politico. Ciò non di meno essa conservò una sua peculiare dimensione giuridica. Pertanto non mi convincono in alcun modo le ipotesi di Ralph Mathisen e di Alessandro Barbero. Secondo il primo, si assisterebbe a un processo di assimilazione tacita nei quadri della cittadinanza di tutti i nuovi venuti e, in primo luogo, dei barbari. Nella sua prospettiva, dopo l’edictum de civitate del 212, la cittadinanza romana, in quanto status che attribuisce – al pari di ogni altro – poteri e doveri, esisterebbe quasi esclusivamente per effetto di una mera proclamazione di volontà, a seconda del desiderio individuale e delle circostanze del momento. Insomma i barbari che, nel IV e nel V secolo, utilizzavano, al pari dei cittadini, i paradigmi negoziali romani, lo facevano non già perché avessero formalmente ricevuto la cittadinanza, ma in forza d’una clausola della constitutio Antoniniana (della quale ovviamente non rimane alcuna traccia nel testo del P.Giss. 40 col. I) che avrebbe perpetuato nel tempo gli effetti del suo dispositivo. In ogni caso non per questo tutti i barbari, insediati sul territorio delle provinciae, sarebbero stati automaticamente annoverati tra i cives. Si sarebbero reputati tali soltanto quanti facessero uso del ius civitatis. Di conseguenza la cittadinanza sarebbe stata questione di partecipazione, di integrazione e, soprattutto, di auto-identificazione. Ognuno poteva riconoscersi e presentarsi o come civis Francus o come civis Romanus. Anzi, in virtù della nozione di doppia cittadinanza, sarebbe stato contestualmente titolare di ambedue le civitates. Quest’ipotesi, non falsificabile perché sfugge a reale confronto con le fonti, va respinta al pari di quella di Alessandro Barbero. A giudizio di quest’ultimo, nel corso del V secolo d.C., sarebbe svanita la stessa nozione di peregrinitas. In epoca tardoantica la constitutio Antoniniana sarebbe stata percepita «come un’estensione della cittadinanza a chiunque ven a vivere nell’Impero e si sottomett all’autorità imperiale». Tuttavia, in tal modo, si dimentica che la civitas Romana ha conservato un suo specifico rilievo giuridico rispetto a tutte quelle situazioni che comportavano una limitazione della propria libertà. Nelle Galliae del V secolo erano, in effetti, ancor molto numerosi i Latini discendenti dei liberti Iuniani, alcuni dei quali – quantunque ingenui appunto perché nati dopo la manumissione dei propri genitori – andavano comunque incontro a gravi limitazioni del proprio ius conubii ius commercii, e, in primo luogo in quest’ultimo caso, di quello “mortis causa” (PS. 4.9.8: H. n. 14; cfr. la formula d’Avernia: H. n. 15). A mio giudizio, se un punto di svolta vi fu, esso andrebbe tutt’al più collocato in età giustinianea, come parrebbe evincersi, tra l’altro, dal caput 5° della Novella LXXVIII databile al 539. 3. Dopo questa sintetica rassegna di opinioni, mi sembra più prudente concludere che la principale, se non unica, via di accesso dei barbari alla cittadinanza romana rimase, nel IV secolo, il servizio militare, in primo luogo quello prestato in alcune specifiche unità dell’esercito. A tal riguardo, l’ipotesi avanzata, negli anni 80 del secolo scorso, da Émilienne Demougeot mi appare, ancor oggi, nel complesso più ragionevole delle altre che le si contrappongono. La studiosa francese ha chiarito che fu l’esercito dei comitatenses, largamente privilegiato rispetto alle unità dei ripenses (o limitanei), a permettere almeno a un certo numero di soldati barbari di divenire cittadini. Dopo Costantino la civitas fu concessa a Franchi, Alamanni e altri barbari appartenenti sia alle scolae palatinae della nuova guardia imperiale, sia all’élite degli ufficiali degli auxilia e delle vexillationes. Un eccezionale documento sull’insegnamento del diritto in Occidente – l’interpretatio Gai Institutionum Augustodunensis – fornisce una testimonianza d’estremo interesse. In effetti parrebbe proprio che i peregrini sollecitassero ancora, come in passato, il ‘dono’ della civitas. Soazick Kerneis ha chiarito che qui (Frag.Gai 1-5 [H. n. 17]: cfr. Gai. Inst. 1.93-94), diversamente dal quel che si riscontra nella breve sezione dedicata al ius Latii (Frag.Gai 6-8 [H. n. 18]: cfr. Gai. Inst. 1.95-96), la vox magistra, la voce di un Maestro gallo-romano a noi ignoto, non indugia su una digressione di carattere meramente storico. Al contrario il dispositivo normativo, che egli descrive nei §§ 1-5 della parafrasi, parrebbe ancora vigente nelle Galliae d’età tardoantica (tra IV e V secolo). 4. L’esame della legislazione giustinianea e postgiustinianea dimostra che, quanto al matrimonio, la distinzione tra romani e stranieri sussisteva e rimaneva rilevante: in effetti le unioni con i peregrini non erano tutelate dal diritto (I. 1.10pr. e 12) (H. n. 19). Dal VI fino all’XI secolo i δημόσια ὀφφίκiα furono costantemente connessi con la cittadinanza. Anche i capi barbari che ricevano dignità imperiali, pur governando i loro popoli, possono essere considerati membri della πολιτεία e, pertanto, cives Romani. È il caso, probabilmente, di Odoacre, di Teodorico, che fu console nel 484, di suo genero Eutarico (il padre di Atalarico), che, nel 519, rivestì la medesima carica in Italia, nonché di Sigismondo, il re dei Burgundi, che nel 515 ottenne il titolo di magister militum Galliae: Avit. Ep. 47 (42) (ed. Peiper, MGH VI 2., p. 76) e Avit. Ep. 78 (69) (ibid. p. 93): H. n. 22. Un testo legislativo fa esplicito riferimento ai barbari onorati con qualche carica o dignità dall’imperatore (Nov. Iust. 117 c. 4: H. n. 24). Come ha, da par suo, indicato Fausto Goria, gli elementi più rilevanti si colgono nelle interpretazioni che ne diedero i giuristi del VI secolo. In effetti due epitomatori di quegli anni, come Anastasio di Emesa e Teodoro Scolastico, nelle loro summae giungono, a tal proposito, a conclusioni sensibilmente differenti. Anastasio parla di οἱ ὑπόσπονδοι βαρβαροί, mostrando così di riferire questa disposizione ai capi barbari dei popoli alleati. Teodoro, viceversa, la applica agli ὑποτελεῖς βαρβαροί, espressione, invece, che indica quanti siano pienamente inseriti nell’Impero e, di conseguenza, soggetti agli obblighi tributari gravanti sui subiecti. È probabile che il secondo (Teodoro) cogliesse meglio del primo l’autentico contenuto normativo di tale provvedimento. 5. Il quadro complessivo delle fonti d’età giustinianea consente di concludere che, anche in questo periodo, rimasero sostanzialmente operanti i medesimi dispositivi giuridici che avevano disciplinato l’accesso dei barbari – in primo luogo di quelli arruolati nelle forze militari dell’Impero – nei ranghi della cittadinanza. Non avrebbe senso, in questa sede, proseguire oltre, prendendo in esame epoche successive nelle quali l’esercito romano, almeno in Occidente (se si eccettuano l’Italia, l’Africa e la Betica per un breve periodo), non esisteva più da secoli. Quanto alla civitas Romana, in sé e per sé considerata, ho la sensazione che essa conservasse qualche rilievo politico-giuridico esclusivamente allorquando si riusciva ancora a immaginare la persistenza in vita della Romana respublica. I protagonisti di una pagina della Cronaca di Reginone di Prüm parrebbero farlo. Il 18 maggio dell’872 il principe longobardo Adelchi di Salerno fu dichiarato dal senato dei Romani tyrannus e hostis reipublicae: (Reginonis Chronicon, ed. H.H. Pertz in MGH Scriptores I p. 584: H. n. 25) Tunc a senatu Romanorum idem Adalgisus tyrannus atque hostis reipublicae declaratur. E, in effetti, noi sappiamo che coloro i quali senatus hostes iudicavit perdevano la cittadinanza (cfr. Paul 11 ad ed. D. 4.5.5.1 e il passo corrispondente dei Basilici). Se, invece, rivolgiamo il nostro sguardo alle istituzioni del diritto che operavano nella dimensione quotidiana delle società europee altomedievali, occorre riconoscere che, come nozione propriamente giuridica, la civitas Romana – prescindendo dallo specifico campo delle manumissioni e, in particolar modo, della manumissio in ecclesia – si eclissò nel cielo della storia (cfr., in primo luogo, Capitulare ecclesiasticum [Capitularia regum Francorum, ed. A. Boretius] 2 voll., MGH Leges II, Hannover 1883, no. 138 [c. 818/19], vol. I, pp. 276-277: H. n. 26; Lex Ripuar. tit. De libertis secundum legem Romanam 64.1: H. n. 27; F. Fabbrini, Un nuovo documento relativo alla manumissio in ecclesia, in “Rendiconti dell’Accademia Nazionale Dei Lincei”, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, serie VIII, vol. XVI, Roma 1961, 223, Tav. I: H. n. 28).

Militia e civitas tra III e VI secolo d.C.

Valerio Marotta
2020-01-01

Abstract

Punto di partenza obbligato di questa relazione è la constitutio Antoniniana, perché, a seconda che si confidi nell’una o nell’altra delle tante interpretazioni del suo dispositivo, si possono proporre, sul tema della cittadinanza romana nel III e nel IV secolo, ricostruzioni storiche sensibilmente divergenti. Se leggiamo il testo del P. Giss. 40 col. I (ll. 7-9: H. n. 2) iuxta propria principia, vale a dire come un documento giuridico, risulta davvero arduo concludere che esso, alla linea 9, proponga una clausola di esclusione (χωρ[ὶς] τῶν [δε]δ̣ειτ̣ικίων). Di conseguenza, al momento, non mi appaiono più persuasive quelle congetture che vorrebbero connetterla all’esigenza – esplicitamente avvertita da Caracalla e dai suoi consiglieri – di salvaguardare l’uso, invalso da tempo, di reclutare 'reparti di specialisti' tra le cosiddette gentes devictae e, dunque, tra i dediticii. Quantunque non dubiti del decisivo rilievo dell'arruolamento dei gentiles, vorrei soltanto sottolineare che – venuta meno, a mio parere, l’urgenza di chiarire chi fossero i dediticii della linea 9 del P. Giss. – risulta, a dir poco, fuorviante individuare, in questo temine, il principale filo conduttore col quale connettere insieme le fonti che riguardano la storia dell’esercito e del reclutamento delle cosiddette unità etniche, dall’età severiana alla fine del IV secolo e oltre. Non di meno – benché radicalmente ridimensionata nella mia prospettiva – la questione dei dediticii e, in primo luogo, dei barbari ridotti alla condizione di dediticii, rimane comunque in campo, perché – come abbiamo già sottolineato – alcuni studiosi ritengono che i numeri, almeno in età severiana, si reclutassero in primo luogo tra costoro. In effetti, però, noi conosciamo un’unica unità di questo tipo chiaramente indicata nella nomenclatura come deditizia (CIL 13. 6592 = ILS 9184: H. n. 9). Una sola testimonianza d’età severiana può sorreggere il peso di quelle congetture che riconnettono – quasi che si trattasse di una vera e propria regolarità – il reclutamento nei numeri etnici alla condizione di barbarus dediticius? Occorre rivolgersi ad altre fonti. Allorché, però, si pongano a confronto i dispositivi giuridici descritti dai testi di Gaio H. n. 7), di Isidoro (H. n. 10) e di Leone Magno (H. n. 11) con i dati che emergono dallo spoglio delle testimonianze di III e di IV secolo, si ha l’impressione che essi non operassero davvero nelle prassi istituzionali di quel tempo. In altre parole, come ha osservato circa venti anni fa Gerhard Wirth, i dediticii non si connotano in ragione del loro comune e uniforme statuto giuridico. In realtà, i casi nei quali Roma, ottenuta la deditio, non abbia ricostituito in quanto tale la comunità sottomessa – così come si riscontra, nel caso del populus SEANO (104 a.C.) grazie alla tabula di Alcantara (H. n. 13) – paiono estremamente pochi. Pertanto nulla ci costringe a pensare che i membri delle popolazioni sconfitte e poi insediate nei tractus fossero per statuto esclusi, in quanto dediticii, dalla possibilità di accedere alla civitas Romana. 2. Dopo la constitutio Antoniniana la cittadinanza romana perse senza dubbio gran parte del proprio fascino e del proprio rilievo politico. Ciò non di meno essa conservò una sua peculiare dimensione giuridica. Pertanto non mi convincono in alcun modo le ipotesi di Ralph Mathisen e di Alessandro Barbero. Secondo il primo, si assisterebbe a un processo di assimilazione tacita nei quadri della cittadinanza di tutti i nuovi venuti e, in primo luogo, dei barbari. Nella sua prospettiva, dopo l’edictum de civitate del 212, la cittadinanza romana, in quanto status che attribuisce – al pari di ogni altro – poteri e doveri, esisterebbe quasi esclusivamente per effetto di una mera proclamazione di volontà, a seconda del desiderio individuale e delle circostanze del momento. Insomma i barbari che, nel IV e nel V secolo, utilizzavano, al pari dei cittadini, i paradigmi negoziali romani, lo facevano non già perché avessero formalmente ricevuto la cittadinanza, ma in forza d’una clausola della constitutio Antoniniana (della quale ovviamente non rimane alcuna traccia nel testo del P.Giss. 40 col. I) che avrebbe perpetuato nel tempo gli effetti del suo dispositivo. In ogni caso non per questo tutti i barbari, insediati sul territorio delle provinciae, sarebbero stati automaticamente annoverati tra i cives. Si sarebbero reputati tali soltanto quanti facessero uso del ius civitatis. Di conseguenza la cittadinanza sarebbe stata questione di partecipazione, di integrazione e, soprattutto, di auto-identificazione. Ognuno poteva riconoscersi e presentarsi o come civis Francus o come civis Romanus. Anzi, in virtù della nozione di doppia cittadinanza, sarebbe stato contestualmente titolare di ambedue le civitates. Quest’ipotesi, non falsificabile perché sfugge a reale confronto con le fonti, va respinta al pari di quella di Alessandro Barbero. A giudizio di quest’ultimo, nel corso del V secolo d.C., sarebbe svanita la stessa nozione di peregrinitas. In epoca tardoantica la constitutio Antoniniana sarebbe stata percepita «come un’estensione della cittadinanza a chiunque ven a vivere nell’Impero e si sottomett all’autorità imperiale». Tuttavia, in tal modo, si dimentica che la civitas Romana ha conservato un suo specifico rilievo giuridico rispetto a tutte quelle situazioni che comportavano una limitazione della propria libertà. Nelle Galliae del V secolo erano, in effetti, ancor molto numerosi i Latini discendenti dei liberti Iuniani, alcuni dei quali – quantunque ingenui appunto perché nati dopo la manumissione dei propri genitori – andavano comunque incontro a gravi limitazioni del proprio ius conubii ius commercii, e, in primo luogo in quest’ultimo caso, di quello “mortis causa” (PS. 4.9.8: H. n. 14; cfr. la formula d’Avernia: H. n. 15). A mio giudizio, se un punto di svolta vi fu, esso andrebbe tutt’al più collocato in età giustinianea, come parrebbe evincersi, tra l’altro, dal caput 5° della Novella LXXVIII databile al 539. 3. Dopo questa sintetica rassegna di opinioni, mi sembra più prudente concludere che la principale, se non unica, via di accesso dei barbari alla cittadinanza romana rimase, nel IV secolo, il servizio militare, in primo luogo quello prestato in alcune specifiche unità dell’esercito. A tal riguardo, l’ipotesi avanzata, negli anni 80 del secolo scorso, da Émilienne Demougeot mi appare, ancor oggi, nel complesso più ragionevole delle altre che le si contrappongono. La studiosa francese ha chiarito che fu l’esercito dei comitatenses, largamente privilegiato rispetto alle unità dei ripenses (o limitanei), a permettere almeno a un certo numero di soldati barbari di divenire cittadini. Dopo Costantino la civitas fu concessa a Franchi, Alamanni e altri barbari appartenenti sia alle scolae palatinae della nuova guardia imperiale, sia all’élite degli ufficiali degli auxilia e delle vexillationes. Un eccezionale documento sull’insegnamento del diritto in Occidente – l’interpretatio Gai Institutionum Augustodunensis – fornisce una testimonianza d’estremo interesse. In effetti parrebbe proprio che i peregrini sollecitassero ancora, come in passato, il ‘dono’ della civitas. Soazick Kerneis ha chiarito che qui (Frag.Gai 1-5 [H. n. 17]: cfr. Gai. Inst. 1.93-94), diversamente dal quel che si riscontra nella breve sezione dedicata al ius Latii (Frag.Gai 6-8 [H. n. 18]: cfr. Gai. Inst. 1.95-96), la vox magistra, la voce di un Maestro gallo-romano a noi ignoto, non indugia su una digressione di carattere meramente storico. Al contrario il dispositivo normativo, che egli descrive nei §§ 1-5 della parafrasi, parrebbe ancora vigente nelle Galliae d’età tardoantica (tra IV e V secolo). 4. L’esame della legislazione giustinianea e postgiustinianea dimostra che, quanto al matrimonio, la distinzione tra romani e stranieri sussisteva e rimaneva rilevante: in effetti le unioni con i peregrini non erano tutelate dal diritto (I. 1.10pr. e 12) (H. n. 19). Dal VI fino all’XI secolo i δημόσια ὀφφίκiα furono costantemente connessi con la cittadinanza. Anche i capi barbari che ricevano dignità imperiali, pur governando i loro popoli, possono essere considerati membri della πολιτεία e, pertanto, cives Romani. È il caso, probabilmente, di Odoacre, di Teodorico, che fu console nel 484, di suo genero Eutarico (il padre di Atalarico), che, nel 519, rivestì la medesima carica in Italia, nonché di Sigismondo, il re dei Burgundi, che nel 515 ottenne il titolo di magister militum Galliae: Avit. Ep. 47 (42) (ed. Peiper, MGH VI 2., p. 76) e Avit. Ep. 78 (69) (ibid. p. 93): H. n. 22. Un testo legislativo fa esplicito riferimento ai barbari onorati con qualche carica o dignità dall’imperatore (Nov. Iust. 117 c. 4: H. n. 24). Come ha, da par suo, indicato Fausto Goria, gli elementi più rilevanti si colgono nelle interpretazioni che ne diedero i giuristi del VI secolo. In effetti due epitomatori di quegli anni, come Anastasio di Emesa e Teodoro Scolastico, nelle loro summae giungono, a tal proposito, a conclusioni sensibilmente differenti. Anastasio parla di οἱ ὑπόσπονδοι βαρβαροί, mostrando così di riferire questa disposizione ai capi barbari dei popoli alleati. Teodoro, viceversa, la applica agli ὑποτελεῖς βαρβαροί, espressione, invece, che indica quanti siano pienamente inseriti nell’Impero e, di conseguenza, soggetti agli obblighi tributari gravanti sui subiecti. È probabile che il secondo (Teodoro) cogliesse meglio del primo l’autentico contenuto normativo di tale provvedimento. 5. Il quadro complessivo delle fonti d’età giustinianea consente di concludere che, anche in questo periodo, rimasero sostanzialmente operanti i medesimi dispositivi giuridici che avevano disciplinato l’accesso dei barbari – in primo luogo di quelli arruolati nelle forze militari dell’Impero – nei ranghi della cittadinanza. Non avrebbe senso, in questa sede, proseguire oltre, prendendo in esame epoche successive nelle quali l’esercito romano, almeno in Occidente (se si eccettuano l’Italia, l’Africa e la Betica per un breve periodo), non esisteva più da secoli. Quanto alla civitas Romana, in sé e per sé considerata, ho la sensazione che essa conservasse qualche rilievo politico-giuridico esclusivamente allorquando si riusciva ancora a immaginare la persistenza in vita della Romana respublica. I protagonisti di una pagina della Cronaca di Reginone di Prüm parrebbero farlo. Il 18 maggio dell’872 il principe longobardo Adelchi di Salerno fu dichiarato dal senato dei Romani tyrannus e hostis reipublicae: (Reginonis Chronicon, ed. H.H. Pertz in MGH Scriptores I p. 584: H. n. 25) Tunc a senatu Romanorum idem Adalgisus tyrannus atque hostis reipublicae declaratur. E, in effetti, noi sappiamo che coloro i quali senatus hostes iudicavit perdevano la cittadinanza (cfr. Paul 11 ad ed. D. 4.5.5.1 e il passo corrispondente dei Basilici). Se, invece, rivolgiamo il nostro sguardo alle istituzioni del diritto che operavano nella dimensione quotidiana delle società europee altomedievali, occorre riconoscere che, come nozione propriamente giuridica, la civitas Romana – prescindendo dallo specifico campo delle manumissioni e, in particolar modo, della manumissio in ecclesia – si eclissò nel cielo della storia (cfr., in primo luogo, Capitulare ecclesiasticum [Capitularia regum Francorum, ed. A. Boretius] 2 voll., MGH Leges II, Hannover 1883, no. 138 [c. 818/19], vol. I, pp. 276-277: H. n. 26; Lex Ripuar. tit. De libertis secundum legem Romanam 64.1: H. n. 27; F. Fabbrini, Un nuovo documento relativo alla manumissio in ecclesia, in “Rendiconti dell’Accademia Nazionale Dei Lincei”, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, serie VIII, vol. XVI, Roma 1961, 223, Tav. I: H. n. 28).
2020
978-88-916-4253-0
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