Roméo et Juliette (1867) di Gounod s’inserisce nel contesto della conquista romantica del teatro di Shakespeare, che aveva visto gli scrittori francesi impegnati in prima linea o come ‘imitatori’ dei drammi originali, o come traduttori, e precede d’un anno Hamlet di Ambroise Thomas (1868). Non è facile, tuttavia, cimentarsi con Shakespeare, e lo attesta il ristrettissimo numero di capolavori basati sul suo teatro, a fronte dei numerosissimi tentativi poco riusciti di ridurlo per le scene liriche (ci cascò persino Wagner con Das Liebesverbot, 1836, da Measure for Measure). Come nota Giovanni Guanti nel secondo saggio di questo volume, Barbier et Carré (librettisti anche di Hamlet) fanno veri miracoli per restituire «il fitto gioco di rime e assonanze interne» della tragedia, con esiti talora eccellenti, specie nella cavatina di Roméo («Ange adorable !»), ma l’impianto generale dell’opera privilegia in modo pressoché esclusivo la passione amorosa dei protagonisti, sentimento molto adatto alla vena espressiva intimista di Gounod, mentre lascia sullo sfondo la rivalità fra le famiglie dei Capuleti e Montecchi, componente essenziale della tragedia inglese, specie in relazione allo scioglimento del nodo tragico nel commovente epilogo. Per Enrico Maria Ferrando, autore della guida musicale all’ascolto, questa scelta rappresenta un punto di forza, e dà luogo a «una curiosa bizzarria formale: la presenza di ben quattro duetti d’amore – caso senza precedenti nella storia dell’opera. Nel saggio d’apertura, Michela Niccolai ci descrive con puntiglio le tribolazioni di una partitura che ha preso forma nell’arco di oltre un ventennio (dal 1867 al 1888), a cavallo fra ben tre generi (opéra-comique, oltre ai due citati, opéra-lyrique e opéra) e le relative sale e istituzioni che li ospitavano, condizione ricca d’implicazioni. Gounod dette il meglio di sé nell’intonazione febbrile del sentimento amoroso, «come lo scambio d’amorosi sensi nel giardino di Juliette (II.1, n. 7 “Ah! Lève-toi, soleil” e II.5, n. 9 “Ô nuit divine”) e la presaga “Nuit d’hyménée” (IV.1.1, n. 14)», scrive Guanti, «tutti gioielli di squisita fattura musicale, che tuttavia non rendono piena giustizia alla complessa e flessibile drammaturgia shakespeariana. Così almeno la pensava Verdi, rimproverando al collega francese soprattutto di aver fatto calare il sipario sul duetto con l’ultimo bacio dei protagonisti (V.2, Scène et Duo n. 22)». Un giudizio severo, ma degno della massima considerazione, visto che veniva dal musicista che più di chiunque altro si era confrontato con lo spirito autentico di Shakespeare, scrivendo tre fra i pochi capolavori lirici tratti dal teatro del drammaturgo inglese (Macbeth, Otello, Falstaff).

Charles Gounod, «Roméo et Juliette», «La Fenice prima dell’opera», 2009/2

GIRARDI, MICHELE
2009-01-01

Abstract

Roméo et Juliette (1867) di Gounod s’inserisce nel contesto della conquista romantica del teatro di Shakespeare, che aveva visto gli scrittori francesi impegnati in prima linea o come ‘imitatori’ dei drammi originali, o come traduttori, e precede d’un anno Hamlet di Ambroise Thomas (1868). Non è facile, tuttavia, cimentarsi con Shakespeare, e lo attesta il ristrettissimo numero di capolavori basati sul suo teatro, a fronte dei numerosissimi tentativi poco riusciti di ridurlo per le scene liriche (ci cascò persino Wagner con Das Liebesverbot, 1836, da Measure for Measure). Come nota Giovanni Guanti nel secondo saggio di questo volume, Barbier et Carré (librettisti anche di Hamlet) fanno veri miracoli per restituire «il fitto gioco di rime e assonanze interne» della tragedia, con esiti talora eccellenti, specie nella cavatina di Roméo («Ange adorable !»), ma l’impianto generale dell’opera privilegia in modo pressoché esclusivo la passione amorosa dei protagonisti, sentimento molto adatto alla vena espressiva intimista di Gounod, mentre lascia sullo sfondo la rivalità fra le famiglie dei Capuleti e Montecchi, componente essenziale della tragedia inglese, specie in relazione allo scioglimento del nodo tragico nel commovente epilogo. Per Enrico Maria Ferrando, autore della guida musicale all’ascolto, questa scelta rappresenta un punto di forza, e dà luogo a «una curiosa bizzarria formale: la presenza di ben quattro duetti d’amore – caso senza precedenti nella storia dell’opera. Nel saggio d’apertura, Michela Niccolai ci descrive con puntiglio le tribolazioni di una partitura che ha preso forma nell’arco di oltre un ventennio (dal 1867 al 1888), a cavallo fra ben tre generi (opéra-comique, oltre ai due citati, opéra-lyrique e opéra) e le relative sale e istituzioni che li ospitavano, condizione ricca d’implicazioni. Gounod dette il meglio di sé nell’intonazione febbrile del sentimento amoroso, «come lo scambio d’amorosi sensi nel giardino di Juliette (II.1, n. 7 “Ah! Lève-toi, soleil” e II.5, n. 9 “Ô nuit divine”) e la presaga “Nuit d’hyménée” (IV.1.1, n. 14)», scrive Guanti, «tutti gioielli di squisita fattura musicale, che tuttavia non rendono piena giustizia alla complessa e flessibile drammaturgia shakespeariana. Così almeno la pensava Verdi, rimproverando al collega francese soprattutto di aver fatto calare il sipario sul duetto con l’ultimo bacio dei protagonisti (V.2, Scène et Duo n. 22)». Un giudizio severo, ma degno della massima considerazione, visto che veniva dal musicista che più di chiunque altro si era confrontato con lo spirito autentico di Shakespeare, scrivendo tre fra i pochi capolavori lirici tratti dal teatro del drammaturgo inglese (Macbeth, Otello, Falstaff).
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/203142
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