l motto del titolo, per quanto tratto dal libretto della Catena d’Adone di Ottavio Tronsarelli (Roma 1626), ben riassume ancora oggi la pur implicita morale dell’Incoronatione di Poppea (Venezia 1643). L’analogia fu notata già da Nino Pirrotta più di mezzo secolo fa: in un saggio del 1956, e in altri due successivi (1963, 1969), lo studioso seppe proporre un’interpretazione complessiva dell’opera di Busenello e Monteverdi che risulta a tutt’oggi insuperata per equilibrio, profondità e capacità di sintesi; e che tuttavia ha lasciato solo qualche vaga traccia in più recenti e sistematiche riletture musicologiche, fra cui spiccano quelle di Ellen Rosand, Iain Fenlon e Peter N. Miller, Tim Carter, Wendy Heller. Il presente contribuo si propone di riequilibrare lo stato attuale degli studi ermeneutici dedicati all’ultima e più controversa delle opere monteverdiane: da un lato ristabilendo l’effettiva paternità e consistenza del loro nucleo primigenio (rappresentato dai tre saggi pirrottiani); dall’altro riprendendo gli assunti fondamentali di tale nucleo interpretativo per condurli, tramite più personali osservazioni analitiche, a una nuova e più bilanciata visione complessiva dell’opera. Una visione che risulti, in particolare, meno radicalmente ‘moralistica’ e ‘neostoicistica’ di quella ricostruita—pur con apprezzabile rigore storiografico—da Miller- Fenlon, ma anche meno forzatamente ‘antimoralistica’ e ‘ironico-satirica’ di quella promossa, sul fronte opposto, da Carter. Quel che emerge dalla lettura drammaturgica del libretto è anzitutto la moderna applicazione di princìpi aristotelici ben noti non solo a Busenello (e agli altri membri dell’Accademia degli Incogniti) ma anche allo stesso Monteverdi. Non solo il pieno rispetto delle ‘tre unità’, ma anche la creazione di una fitta rete di conflitti, perturbazioni e peripezie, culminanti nell’agnizione finale promossa da Ottone, garantiscono il dipanarsi lineare e verosimile di un ‘nodo’ tragico—imperniato sull’evento centrale della morte di Seneca—il cui conclusivo ‘scioglimento’ risulta tanto drammaturgicamente logico quanto eloquente ed efficace sul piano etico. La musica di Monteverdi, tutt’altro che ‘ambigua’ o ‘ironica’, ha semmai la funzione di sottolineare, talora amplificandolo a dismisura, quel che già nel libretto è espresso in parole, situazioni e azioni d’inequivocabile significato. Ne deriva un autentico scavo psicologico di caratteri umani vari ma anche internamente sfaccettati: siano essi dominati da un Amore di tipo passionale (Poppea, Nerone, Ottavia, in parte il più conflittuale Ottone) o spirituale (Drusilla e Ottone dopo l’agnizione), siano essi animati da un più elevato e virtuoso “distacco” dalle passioni (Seneca). L’analisi dettagliata dell’episodio chiave dell’intera opera, il confronto tra Seneca e i suoi Famigliari prima del suicidio (Atto II, scena 3), mette in luce non solo l’aderenza della musica monteverdiana ai contenuti—serissimi e inequivocabili—dei versi di Busenello, ma anche l’impeccabile logica esegetica ed espressiva che ne regola ogni singola scelta compositiva. Tutto questo non fa che confermare, ed anzi rafforzare ulteriormente, quanto già còlto lucidamente da Pirrotta: “Nell’opera nessun tentativo è fatto di giustificare o di condannare sul piano morale la condotta dei personaggi principali”; una possibile “morale”, tuttavia, può riconoscersi proprio “nel distacco col quale Seneca contempla tanto cieco vangheggiare e vaneggiare, e quasi fa suo […] il motto del consigliere inascoltato della Catena d’Adone: La ragion perde dove il senso abbonda”.

"La ragion perde dove il senso abbonda". Una rilettura etico-drammaturgica dell'Incoronatione di Poppea

LA VIA, STEFANO
2010-01-01

Abstract

l motto del titolo, per quanto tratto dal libretto della Catena d’Adone di Ottavio Tronsarelli (Roma 1626), ben riassume ancora oggi la pur implicita morale dell’Incoronatione di Poppea (Venezia 1643). L’analogia fu notata già da Nino Pirrotta più di mezzo secolo fa: in un saggio del 1956, e in altri due successivi (1963, 1969), lo studioso seppe proporre un’interpretazione complessiva dell’opera di Busenello e Monteverdi che risulta a tutt’oggi insuperata per equilibrio, profondità e capacità di sintesi; e che tuttavia ha lasciato solo qualche vaga traccia in più recenti e sistematiche riletture musicologiche, fra cui spiccano quelle di Ellen Rosand, Iain Fenlon e Peter N. Miller, Tim Carter, Wendy Heller. Il presente contribuo si propone di riequilibrare lo stato attuale degli studi ermeneutici dedicati all’ultima e più controversa delle opere monteverdiane: da un lato ristabilendo l’effettiva paternità e consistenza del loro nucleo primigenio (rappresentato dai tre saggi pirrottiani); dall’altro riprendendo gli assunti fondamentali di tale nucleo interpretativo per condurli, tramite più personali osservazioni analitiche, a una nuova e più bilanciata visione complessiva dell’opera. Una visione che risulti, in particolare, meno radicalmente ‘moralistica’ e ‘neostoicistica’ di quella ricostruita—pur con apprezzabile rigore storiografico—da Miller- Fenlon, ma anche meno forzatamente ‘antimoralistica’ e ‘ironico-satirica’ di quella promossa, sul fronte opposto, da Carter. Quel che emerge dalla lettura drammaturgica del libretto è anzitutto la moderna applicazione di princìpi aristotelici ben noti non solo a Busenello (e agli altri membri dell’Accademia degli Incogniti) ma anche allo stesso Monteverdi. Non solo il pieno rispetto delle ‘tre unità’, ma anche la creazione di una fitta rete di conflitti, perturbazioni e peripezie, culminanti nell’agnizione finale promossa da Ottone, garantiscono il dipanarsi lineare e verosimile di un ‘nodo’ tragico—imperniato sull’evento centrale della morte di Seneca—il cui conclusivo ‘scioglimento’ risulta tanto drammaturgicamente logico quanto eloquente ed efficace sul piano etico. La musica di Monteverdi, tutt’altro che ‘ambigua’ o ‘ironica’, ha semmai la funzione di sottolineare, talora amplificandolo a dismisura, quel che già nel libretto è espresso in parole, situazioni e azioni d’inequivocabile significato. Ne deriva un autentico scavo psicologico di caratteri umani vari ma anche internamente sfaccettati: siano essi dominati da un Amore di tipo passionale (Poppea, Nerone, Ottavia, in parte il più conflittuale Ottone) o spirituale (Drusilla e Ottone dopo l’agnizione), siano essi animati da un più elevato e virtuoso “distacco” dalle passioni (Seneca). L’analisi dettagliata dell’episodio chiave dell’intera opera, il confronto tra Seneca e i suoi Famigliari prima del suicidio (Atto II, scena 3), mette in luce non solo l’aderenza della musica monteverdiana ai contenuti—serissimi e inequivocabili—dei versi di Busenello, ma anche l’impeccabile logica esegetica ed espressiva che ne regola ogni singola scelta compositiva. Tutto questo non fa che confermare, ed anzi rafforzare ulteriormente, quanto già còlto lucidamente da Pirrotta: “Nell’opera nessun tentativo è fatto di giustificare o di condannare sul piano morale la condotta dei personaggi principali”; una possibile “morale”, tuttavia, può riconoscersi proprio “nel distacco col quale Seneca contempla tanto cieco vangheggiare e vaneggiare, e quasi fa suo […] il motto del consigliere inascoltato della Catena d’Adone: La ragion perde dove il senso abbonda”.
2010
Atti dei Covegni Lincei
9788821810305
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/218150
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