Non appena scorge con terrore l’immagine dell’amata, Max si precipita dall’alto della rupe sino al fondo della Gola del lupo, dove l’attende Kaspar per forgiare le pallottole magiche. Lì, «in braccio al demonio, dove il nero della più cupa foresta di Germania si mostra, il canto, la voce del cuore, tace e non ha più suono», scrive Davide Daolmi nella guida musicale all’opera. E prosegue: «Cantano i cori di demoni, gli alberi, le nubi e gli animali notturni, ma gli uomini no. Nella Gola del lupo gli uomini parlano». Il procedimento attuato da Weber in questa scena che, almeno sul terreno diacronico della grandezza e dell’affinità di genere, segue quella cena di Don Giovanni con un convitato di pietra, è straordinario, l’effetto, perciò, ne risulta garantito. L’atmosfera iniziale è segnata dal canto straziato degli spiriti, che gemono («Huii!») sulla nota La, mentre è l’orchestra a dipingere il terrore: i legni (disposti su tre ottave!) fanno un balzo dal La al Fa diesis, cioè dalla base alla cima dell’accordo di settima diminuita tenuto dall’orchestra. È uno tra i più magistrali esempi di ‘pittura sonora’ nella storia del teatro musicale (un argomento che viene qui sviscerato, nel contesto della storia dell’orchestrazione, da Jürgen Maehder). Der Freischütz abbonda di significati reconditi, che molti studiosi hanno provato a rendere manifesti. Davide Daolmi, analizzando il finale ultimo, nota che «nella scena precedente, un interno, c’era un coro femminile, ora il coro festante è, prevedibilmente, tutto maschile. Ancora una volta si confermano le sessualità degli spazi, legate alla distribuzione degli incarichi, ai doveri sociali, ed anche ai piaceri». Dal canto suo Michela Garda scrive: «La duplicità di idillio e minaccia è il contrassegno di una soggettività maschile incrinata che ha perso la confidenza con il mondo. Nell’aria di Max del primo atto, la dinamica drammatica ruota intorno ad una confessione di impotenza e di inadeguatezza, per la quale non v’è altra spiegazione che quella di un destino avverso, né conclusione diversa dalla disperazione. Risultano infranti tutti i simboli maschili (foresta, osteria, cacciatori, corni) che all’inizio avevano la funzione di incarnare un mondo di sicurezze nella mira, nell’amore, nella natura». La sezione dei documenti è arricchita, in questo numero, da un’antologia di testi curata da Davide Daolmi, dove due fra i genii più irregolari dell’Ottocento, Berlioz e Boito, dicono la loro sul Freischütz, un’opera decisiva per entrambi, e strettamente intrecciata alle loro sorti personali.

Carl Maria von Weber, «Der Freischütz», «La Fenice prima dell’opera», 2004/5

GIRARDI, MICHELE
2004-01-01

Abstract

Non appena scorge con terrore l’immagine dell’amata, Max si precipita dall’alto della rupe sino al fondo della Gola del lupo, dove l’attende Kaspar per forgiare le pallottole magiche. Lì, «in braccio al demonio, dove il nero della più cupa foresta di Germania si mostra, il canto, la voce del cuore, tace e non ha più suono», scrive Davide Daolmi nella guida musicale all’opera. E prosegue: «Cantano i cori di demoni, gli alberi, le nubi e gli animali notturni, ma gli uomini no. Nella Gola del lupo gli uomini parlano». Il procedimento attuato da Weber in questa scena che, almeno sul terreno diacronico della grandezza e dell’affinità di genere, segue quella cena di Don Giovanni con un convitato di pietra, è straordinario, l’effetto, perciò, ne risulta garantito. L’atmosfera iniziale è segnata dal canto straziato degli spiriti, che gemono («Huii!») sulla nota La, mentre è l’orchestra a dipingere il terrore: i legni (disposti su tre ottave!) fanno un balzo dal La al Fa diesis, cioè dalla base alla cima dell’accordo di settima diminuita tenuto dall’orchestra. È uno tra i più magistrali esempi di ‘pittura sonora’ nella storia del teatro musicale (un argomento che viene qui sviscerato, nel contesto della storia dell’orchestrazione, da Jürgen Maehder). Der Freischütz abbonda di significati reconditi, che molti studiosi hanno provato a rendere manifesti. Davide Daolmi, analizzando il finale ultimo, nota che «nella scena precedente, un interno, c’era un coro femminile, ora il coro festante è, prevedibilmente, tutto maschile. Ancora una volta si confermano le sessualità degli spazi, legate alla distribuzione degli incarichi, ai doveri sociali, ed anche ai piaceri». Dal canto suo Michela Garda scrive: «La duplicità di idillio e minaccia è il contrassegno di una soggettività maschile incrinata che ha perso la confidenza con il mondo. Nell’aria di Max del primo atto, la dinamica drammatica ruota intorno ad una confessione di impotenza e di inadeguatezza, per la quale non v’è altra spiegazione che quella di un destino avverso, né conclusione diversa dalla disperazione. Risultano infranti tutti i simboli maschili (foresta, osteria, cacciatori, corni) che all’inizio avevano la funzione di incarnare un mondo di sicurezze nella mira, nell’amore, nella natura». La sezione dei documenti è arricchita, in questo numero, da un’antologia di testi curata da Davide Daolmi, dove due fra i genii più irregolari dell’Ottocento, Berlioz e Boito, dicono la loro sul Freischütz, un’opera decisiva per entrambi, e strettamente intrecciata alle loro sorti personali.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/22052
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