Lontano dai cascami estetici che animarono colleghi e studiosi dell’Europa occidentale, Janácek si formò nel contatto con la musica popolare, praticando le ricerche etnografiche sul campo come Béla Bartók (e con le medesime ricadute sul suo stile colto), frequentando inoltre, senza pregiudizi, il teatro contemporaneo di parola e musica, con attenzione e affetto particolari per Puccini e il verismo, dotato com’era di un pari talento comunicativo. Nel saggio iniziale, Michele Girardi ha cercato di seguire, per quanto possibile, le tecniche narrative messe in atto da Janácek, osservando quanta calcolata complessità sovrasti e indirizzi il racconto fantastico delle ultime ore di vita dell'ammaliante tricentenaria protagonista del Vec, che assomma nella sua personalità tratti di Floria Tosca, non solo grande cantante, ma come lei nervosa e imperativa, fino allo scorcio finale quando si scioglie, al pari di Turandot. Quando si pensa di aver afferrato un rapporto intertestuale fra temi e melodie – il compositore cèco è anche in questo vicino a Puccini, che grazie all’orchestra introduce e commenta l’azione in stretto rapporto al canto – ecco che la relazione sfugge. Ci si accorge inoltre che questo compositore nazionalista, coltissimo e ferrato teoreticamente (da bravo organista e maestro di coro qual era), utilizzava concetti simili a quelli seriali per stabilire rapporti di derivazione fra le melodie: la forma originale non era mai quella che si ritrovava all’inizio, e nelle riprese non manteneva mai gli stessi connotati. Eppure i parallelismi non possono sfuggire, anche grazie alle peculiari scelte timbriche (una per tutti: il rullo del tamburo piccolo che sigla sempre il tema legato alla formula di Hieronymos Makropulos). Nel saggio seguente, Vincenzina Ottomano ci introduce alla genesi di questo capolavoro, proponendoci al tempo stesso il ritratto di un drammaturgo di prim’ordine come Karel Capek, modernista ad oltranza (il termine «robot» viene da una sua pièce, che gode di fama mondiale). Quel che conta, e che diversifica il libretto dalla fonte, è la prospettiva finale, perché «alla metafora morale di Capek [sull’immortalità] il musicista oppone un’immagine disincantata che non lascia più spazio a nessun’altra riflessione se non quella sull’ineluttabilità della morte […]: Emilia Marty non è più l’essere irreale, il ‘caso’ mostruoso costretto a nascondersi, dissimulare e inventare di volta in volta la propria identità. Adesso, sola sulla scena, si trasforma nel paradigma della condizione umana, e la sua intricata parabola si consuma insieme al documento bruciato dalla fiamma che distruggerà per sempre il segreto di una così grande infelicità». Che meravigliosa utopia etica ha messo in scena Janácek scrivendo opere dai confini dell’Impero austroungarico. E che utopia realizzare una creazione così perfetta, qui come in tutte le sue partiture che esaltano l’idioma cèco sovente nella declinazione morava, in una lingua che il teatro musicale europeo non aveva mai parlato fino a quel momento con simile coerenza e intensità. Oggi il teatro di Janácek ha conquistato, a quasi novant’anni dalla morte, quel posto al sole nel repertorio dei grandi palcoscenici del mondo che spetta solo alle espressioni più vive dell’ingegno artistico umano. Stupisce perciò constatare che un talento simile dovette compiere cinquant’anni per vedere in scena il suo primo capolavoro! Ma alla fine, il suo sogno di imporre nei circuiti internazionali un teatro in lingua cèca, sintonizzato con quello dei colleghi che ben conosceva e amava, fu realizzato e dal 1916, anno in cui Jenufa venne consacrata a Praga, fino alla morte (1928), l’elenco dei capolavori è impressionante. Conquistare il mondo a partire da una provincia soffocante dove sono imprigionati i suoi personaggi, e in particolare le protagoniste femminili, per poi allargarsi a tutti i generi di teatro, è il segno dell’universalità del messaggio dei suoi capolavori e della forza di una drammaturgia anticonvenzionale attuata nel rispetto di alcuni topoi fondamentale della tradizione.

Leos Janácek, «Vec Makropulos»

GIRARDI, MICHELE
2013-01-01

Abstract

Lontano dai cascami estetici che animarono colleghi e studiosi dell’Europa occidentale, Janácek si formò nel contatto con la musica popolare, praticando le ricerche etnografiche sul campo come Béla Bartók (e con le medesime ricadute sul suo stile colto), frequentando inoltre, senza pregiudizi, il teatro contemporaneo di parola e musica, con attenzione e affetto particolari per Puccini e il verismo, dotato com’era di un pari talento comunicativo. Nel saggio iniziale, Michele Girardi ha cercato di seguire, per quanto possibile, le tecniche narrative messe in atto da Janácek, osservando quanta calcolata complessità sovrasti e indirizzi il racconto fantastico delle ultime ore di vita dell'ammaliante tricentenaria protagonista del Vec, che assomma nella sua personalità tratti di Floria Tosca, non solo grande cantante, ma come lei nervosa e imperativa, fino allo scorcio finale quando si scioglie, al pari di Turandot. Quando si pensa di aver afferrato un rapporto intertestuale fra temi e melodie – il compositore cèco è anche in questo vicino a Puccini, che grazie all’orchestra introduce e commenta l’azione in stretto rapporto al canto – ecco che la relazione sfugge. Ci si accorge inoltre che questo compositore nazionalista, coltissimo e ferrato teoreticamente (da bravo organista e maestro di coro qual era), utilizzava concetti simili a quelli seriali per stabilire rapporti di derivazione fra le melodie: la forma originale non era mai quella che si ritrovava all’inizio, e nelle riprese non manteneva mai gli stessi connotati. Eppure i parallelismi non possono sfuggire, anche grazie alle peculiari scelte timbriche (una per tutti: il rullo del tamburo piccolo che sigla sempre il tema legato alla formula di Hieronymos Makropulos). Nel saggio seguente, Vincenzina Ottomano ci introduce alla genesi di questo capolavoro, proponendoci al tempo stesso il ritratto di un drammaturgo di prim’ordine come Karel Capek, modernista ad oltranza (il termine «robot» viene da una sua pièce, che gode di fama mondiale). Quel che conta, e che diversifica il libretto dalla fonte, è la prospettiva finale, perché «alla metafora morale di Capek [sull’immortalità] il musicista oppone un’immagine disincantata che non lascia più spazio a nessun’altra riflessione se non quella sull’ineluttabilità della morte […]: Emilia Marty non è più l’essere irreale, il ‘caso’ mostruoso costretto a nascondersi, dissimulare e inventare di volta in volta la propria identità. Adesso, sola sulla scena, si trasforma nel paradigma della condizione umana, e la sua intricata parabola si consuma insieme al documento bruciato dalla fiamma che distruggerà per sempre il segreto di una così grande infelicità». Che meravigliosa utopia etica ha messo in scena Janácek scrivendo opere dai confini dell’Impero austroungarico. E che utopia realizzare una creazione così perfetta, qui come in tutte le sue partiture che esaltano l’idioma cèco sovente nella declinazione morava, in una lingua che il teatro musicale europeo non aveva mai parlato fino a quel momento con simile coerenza e intensità. Oggi il teatro di Janácek ha conquistato, a quasi novant’anni dalla morte, quel posto al sole nel repertorio dei grandi palcoscenici del mondo che spetta solo alle espressioni più vive dell’ingegno artistico umano. Stupisce perciò constatare che un talento simile dovette compiere cinquant’anni per vedere in scena il suo primo capolavoro! Ma alla fine, il suo sogno di imporre nei circuiti internazionali un teatro in lingua cèca, sintonizzato con quello dei colleghi che ben conosceva e amava, fu realizzato e dal 1916, anno in cui Jenufa venne consacrata a Praga, fino alla morte (1928), l’elenco dei capolavori è impressionante. Conquistare il mondo a partire da una provincia soffocante dove sono imprigionati i suoi personaggi, e in particolare le protagoniste femminili, per poi allargarsi a tutti i generi di teatro, è il segno dell’universalità del messaggio dei suoi capolavori e della forza di una drammaturgia anticonvenzionale attuata nel rispetto di alcuni topoi fondamentale della tradizione.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/660613
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