Come si apprende dal saggio di Vincenzina Ottomano che apre questo volume, Britten, oltre a non rendere pubblica la decisione di trarre un’opera da Der Tod in Venedig per scansare eventuali complicazioni legali per plagio, evitò di vedere la pellicola per non esserne influenzato, o perlomeno così ebbe a dichiarare. Lavorò alla riduzione drammaturgica della novella, tuttavia, proprio nell’anno in cui sarebbe uscito il film omonimo di Visconti, e, almeno nello scegliere il danzatore per la parte di Tadzio (per non dire di altre coincidenze singolari, forse obbligate), rivelò ancora profonda sintonia col Maestro italiano. O esercitò forse opzioni consapevoli? Chissà … Magari la scelta di un aspetto ideale per l’angelo della morte, la cui grazia incatena il protagonista alla sua sorte, vincolò i due artisti a scelte obbligate? Sta di fatto che «Visconti e Britten rimettono mano a Morte a Venezia negli anni Settanta, all’età rispettivamente di sessantacinque (1971) e sessant’anni (1973)», nota Davide Daolmi nelle pagine seguenti. «Entrambi sono al termine di una carriera di riconoscimenti e successi; entrambi, da uomini di sinistra, vivono l’euforia del post-sessantotto; entrambi convivono, se non pubblicamente, almeno consapevolmente con la propria omosessualità. È chiaro che il recupero del racconto di Mann è mosso dal privato, ma è altrettanto chiaro che l’interesse principale non ruota più attorno al desiderio, o almeno non solo, mentre al contrario è eccezionalmente condizionato dal senso della fine». L’argomento di Death in Venice, come quello di gran parte delle opere di Britten (si pensi a The Turn of the Screw, nata sul palcoscenico della Fenice nel 1954) tratta una tematica scabrosa con intenti etici. Su questo tema si concentra Davide Daolmi. Se «Morte a Venezia resta comunque una storia di pedofilia», scrive ancora Daolmi, altrettanto, se non più importante è che dietro alla vicenda vi sia «un caparbio attaccamento a quella giovinezza capace di distrarre dalla rassegnata senilità». Forse Death in Venice incarna artisticamente l’«urgenza di una confessione non più procrastinabile»? Più probabilmente «ciò che veramente sembra volersi raccontare – e qui più che altrove senza pudori – è la tragedia dell’età. Tragedia in cui la passione inconfessabile per un ragazzino appare quasi più un diversivo per distrarre, primi fra tutti i loro stessi autori, dall’indecenza, al limite dell’osceno, della vecchiaia messa in mostra». Fra i tanti elementi che, con coerenza stringente, ci segnalano come la morte, più che la scoperta delle proprie inclinazioni autentiche da parte di Aschenbach, sia il vero soggetto dell’ultimo lavoro di Britten, c’è il vento di scirocco, che i veneziani, e i numerosissimi ospiti della nostra città, ben conoscono: «the air heavy, a hint of sirocco» (I.4), «perhaps the sirocco’s a plague?» (II.10). Venezia è uno elemento centrale di questa tragedia, nel teatro delle sue calli che Aschenbach percorre, dove la morte si cela anche dietro le sembianze di un vecchio gondoliere e della sua barca (I.3): «How black a gondola is – / black, coffin black, / a vision of death itself / and the last silent voyage»…

Benjamin Britten, «Death in Venice», «La Fenice prima dell’opera», 2008/5

GIRARDI, MICHELE
2008-01-01

Abstract

Come si apprende dal saggio di Vincenzina Ottomano che apre questo volume, Britten, oltre a non rendere pubblica la decisione di trarre un’opera da Der Tod in Venedig per scansare eventuali complicazioni legali per plagio, evitò di vedere la pellicola per non esserne influenzato, o perlomeno così ebbe a dichiarare. Lavorò alla riduzione drammaturgica della novella, tuttavia, proprio nell’anno in cui sarebbe uscito il film omonimo di Visconti, e, almeno nello scegliere il danzatore per la parte di Tadzio (per non dire di altre coincidenze singolari, forse obbligate), rivelò ancora profonda sintonia col Maestro italiano. O esercitò forse opzioni consapevoli? Chissà … Magari la scelta di un aspetto ideale per l’angelo della morte, la cui grazia incatena il protagonista alla sua sorte, vincolò i due artisti a scelte obbligate? Sta di fatto che «Visconti e Britten rimettono mano a Morte a Venezia negli anni Settanta, all’età rispettivamente di sessantacinque (1971) e sessant’anni (1973)», nota Davide Daolmi nelle pagine seguenti. «Entrambi sono al termine di una carriera di riconoscimenti e successi; entrambi, da uomini di sinistra, vivono l’euforia del post-sessantotto; entrambi convivono, se non pubblicamente, almeno consapevolmente con la propria omosessualità. È chiaro che il recupero del racconto di Mann è mosso dal privato, ma è altrettanto chiaro che l’interesse principale non ruota più attorno al desiderio, o almeno non solo, mentre al contrario è eccezionalmente condizionato dal senso della fine». L’argomento di Death in Venice, come quello di gran parte delle opere di Britten (si pensi a The Turn of the Screw, nata sul palcoscenico della Fenice nel 1954) tratta una tematica scabrosa con intenti etici. Su questo tema si concentra Davide Daolmi. Se «Morte a Venezia resta comunque una storia di pedofilia», scrive ancora Daolmi, altrettanto, se non più importante è che dietro alla vicenda vi sia «un caparbio attaccamento a quella giovinezza capace di distrarre dalla rassegnata senilità». Forse Death in Venice incarna artisticamente l’«urgenza di una confessione non più procrastinabile»? Più probabilmente «ciò che veramente sembra volersi raccontare – e qui più che altrove senza pudori – è la tragedia dell’età. Tragedia in cui la passione inconfessabile per un ragazzino appare quasi più un diversivo per distrarre, primi fra tutti i loro stessi autori, dall’indecenza, al limite dell’osceno, della vecchiaia messa in mostra». Fra i tanti elementi che, con coerenza stringente, ci segnalano come la morte, più che la scoperta delle proprie inclinazioni autentiche da parte di Aschenbach, sia il vero soggetto dell’ultimo lavoro di Britten, c’è il vento di scirocco, che i veneziani, e i numerosissimi ospiti della nostra città, ben conoscono: «the air heavy, a hint of sirocco» (I.4), «perhaps the sirocco’s a plague?» (II.10). Venezia è uno elemento centrale di questa tragedia, nel teatro delle sue calli che Aschenbach percorre, dove la morte si cela anche dietro le sembianze di un vecchio gondoliere e della sua barca (I.3): «How black a gondola is – / black, coffin black, / a vision of death itself / and the last silent voyage»…
File in questo prodotto:
Non ci sono file associati a questo prodotto.

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/141034
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact