«Andiam ch’Amor ci invita ai bacci / andiam ch’Amor ci invita al letto.» Questi versi, che Erabena – per tutta l’opera travestita da uomo col nome di Eumete – rivolge al suo amato Meonte nel momento del ricongiungimento (III.15), non sono meno espliciti di quelli che l’avvocato Gian Francesco Busenello aveva affidato ad Anna, sorella della protagonista nella Didone (1641), per indurla a lasciarsi andare fra le braccia di Enea: «Vada la castità co’ suoi compassi / a misurar le voglie ai freddi sassi» (III.1). Il musicista delle due opere, Francesco Cavalli, rimane lo stesso, mentre il librettista della Virtù de’ strali d’Amore (1642) è un altro leguleio (esordiente sulle scene teatrali), il ventisettenne Giovanni Faustini, autore di un libretto non meno incline allo strapotere dell’erotismo di quello partorito dall’illustre collega, che nello stesso anno avrebbe offerto al genio musicale di Claudio Monteverdi i versi dell’Incoronazione di Poppea (1642). Amore, coi suoi strali che mettono lo scompiglio nei cuori del genere umano, è protagonista del saggio di Dinko Fabris, il secondo di questo volume. Quasi sempre sulle scene liriche veneziane degli albori «le opere in musica riflettono e amplificano nello specchio magico l’immagine della città dei piaceri». Ad essi doveva essere aduso Giovanni Faustini, che a partire proprio dalla Virtù, prima fortunata collaborazione, divenne il librettista prediletto da Francesco Cavalli e tale rimase fino alla sua morte prematura (1651), fornendo al teatro d’opera degli anni Quaranta una robustissima spina dorsale. Maria Martino gli dedica un breve ritratto affettuoso, osservando che «nei libretti di Faustini ritroviamo temi cari agli Incogniti quali, ad esempio, la predilezione per l’erotismo, le allusioni a doppio senso, il gusto per i travestimenti». La virtù de’ strali d’amore viene presentata nel saggio d’apertura da Ellen Rosand, attualmente il faro della ricerca su Cavalli nel mondo. Partendo da un quadro dei rapporti tra Faustini e il musicista, la studiosa entra nel vivo della «formula Faustini-Cavalli», individuando i procedimenti più tipici messi in atto dal duo che «aveva formulato una serie di convenzioni flessibili, capaci di offrire una falsariga per la costruzione di nuovi libretti». Tra i numerosi elementi che contribuiscono a creare e rafforzare la fortuna della coppia, Rosand mette in luce l’importanza dell’aspetto scenico, «fra le principali attrattive dello spettacolo operistico, in quest’epoca come in qualunque altra. Col chiaro intento di stimolare l’appetito dei potenziali spettatori, quasi tutti i documenti che descrivono l’opera veneziana delle origini sottolineano i portenti visivi dell’allestimento e la sua verosimiglianza». E le occasioni di esibire meraviglie, nella Virtù, sono molteplici, grazie alla «macchinosità dell’organico vocale e della trama [che] rese possibile un allestimento stimolante», una trama in cui «la vicenda accessoria di Darete ed Ericlea, virtualmente estranea al dramma principale, dev’essere stata inclusa unicamente per il suo valore spettacolare». Il teatro vaporoso e profondo di Cavalli, testimone della mai troppo rimpianta società veneziana, sapiente e libertina, che animava la prima metà del Seicento, merita davvero di tornare in repertorio. Rappresentata nello stesso anno del congedo dalle scene di Monteverdi, «si potrebbe sostenere», con Ellen Rosand «che La virtù de’ strali d’Amore rappresenti la fons et origo dell’opera pubblica veneziana».

Francesco Cavalli, «La virtù de’ strali d’amore», «La Fenice prima dell’opera», 2008/7

GIRARDI, MICHELE
2008-01-01

Abstract

«Andiam ch’Amor ci invita ai bacci / andiam ch’Amor ci invita al letto.» Questi versi, che Erabena – per tutta l’opera travestita da uomo col nome di Eumete – rivolge al suo amato Meonte nel momento del ricongiungimento (III.15), non sono meno espliciti di quelli che l’avvocato Gian Francesco Busenello aveva affidato ad Anna, sorella della protagonista nella Didone (1641), per indurla a lasciarsi andare fra le braccia di Enea: «Vada la castità co’ suoi compassi / a misurar le voglie ai freddi sassi» (III.1). Il musicista delle due opere, Francesco Cavalli, rimane lo stesso, mentre il librettista della Virtù de’ strali d’Amore (1642) è un altro leguleio (esordiente sulle scene teatrali), il ventisettenne Giovanni Faustini, autore di un libretto non meno incline allo strapotere dell’erotismo di quello partorito dall’illustre collega, che nello stesso anno avrebbe offerto al genio musicale di Claudio Monteverdi i versi dell’Incoronazione di Poppea (1642). Amore, coi suoi strali che mettono lo scompiglio nei cuori del genere umano, è protagonista del saggio di Dinko Fabris, il secondo di questo volume. Quasi sempre sulle scene liriche veneziane degli albori «le opere in musica riflettono e amplificano nello specchio magico l’immagine della città dei piaceri». Ad essi doveva essere aduso Giovanni Faustini, che a partire proprio dalla Virtù, prima fortunata collaborazione, divenne il librettista prediletto da Francesco Cavalli e tale rimase fino alla sua morte prematura (1651), fornendo al teatro d’opera degli anni Quaranta una robustissima spina dorsale. Maria Martino gli dedica un breve ritratto affettuoso, osservando che «nei libretti di Faustini ritroviamo temi cari agli Incogniti quali, ad esempio, la predilezione per l’erotismo, le allusioni a doppio senso, il gusto per i travestimenti». La virtù de’ strali d’amore viene presentata nel saggio d’apertura da Ellen Rosand, attualmente il faro della ricerca su Cavalli nel mondo. Partendo da un quadro dei rapporti tra Faustini e il musicista, la studiosa entra nel vivo della «formula Faustini-Cavalli», individuando i procedimenti più tipici messi in atto dal duo che «aveva formulato una serie di convenzioni flessibili, capaci di offrire una falsariga per la costruzione di nuovi libretti». Tra i numerosi elementi che contribuiscono a creare e rafforzare la fortuna della coppia, Rosand mette in luce l’importanza dell’aspetto scenico, «fra le principali attrattive dello spettacolo operistico, in quest’epoca come in qualunque altra. Col chiaro intento di stimolare l’appetito dei potenziali spettatori, quasi tutti i documenti che descrivono l’opera veneziana delle origini sottolineano i portenti visivi dell’allestimento e la sua verosimiglianza». E le occasioni di esibire meraviglie, nella Virtù, sono molteplici, grazie alla «macchinosità dell’organico vocale e della trama [che] rese possibile un allestimento stimolante», una trama in cui «la vicenda accessoria di Darete ed Ericlea, virtualmente estranea al dramma principale, dev’essere stata inclusa unicamente per il suo valore spettacolare». Il teatro vaporoso e profondo di Cavalli, testimone della mai troppo rimpianta società veneziana, sapiente e libertina, che animava la prima metà del Seicento, merita davvero di tornare in repertorio. Rappresentata nello stesso anno del congedo dalle scene di Monteverdi, «si potrebbe sostenere», con Ellen Rosand «che La virtù de’ strali d’Amore rappresenti la fons et origo dell’opera pubblica veneziana».
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/141036
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