Il penultimo appuntamento del 2008 per «La Fenice prima dell’opera» è con Nabucodonosor, uno dei titoli più popolari e fra i più densi di implicazioni: il melodramma con cui Verdi afferrò a volo il successo che rischiava di sfuggirgli, dopo il tonfo di Un giorno di regno, ma anche quello in cui mise subito in mostra il suo ‘cuore di patriota’. Se il successo è dato incontestabile, solo dopo l’Unità d’Italia «Va pensiero», come spiega Claudio Toscani in questo volume, «diviene il simbolo dell’epoca risorgimentale: spento il fragore delle battaglie, il coro entra nella memoria collettiva come l’allegoria di quegli anni ormai lontani e idealizzati». Verdi stesso contribuì ad alimentare il mito di questo brano come pagina centrale di Nabucco, in una cronaca resa all’editore Giulio Ricordi nel 1879 (che discuto all’inizio della sezione saggistica). Verdi volle fissare allora, a beneficio dei posteri, un episodio esemplare dei suoi «anni di galera», al di là di quel che veramente accadde (il racconto è commovente e coinvolgente, ma si tratta pur sempre di un aneddoto). Rimane tuttavia un dato di fatto indiscutibile: basterebbero le pagine affidate agli ebrei esuli sulle rive dell’Eufrate per illuminare la vita di un artista. Un coro udito milioni di volte in tutti i teatri del mondo, e tanto rappresentativo di un sentimento di nostalgia (di patria, ma anche e soprattutto di ideali vilipesi) che negli ultimi anni da varie parti si è reclamato di recente, in palese contraddizione con le intenzioni di Verdi, che fosse adottato come nuovo inno d’Italia. Ma il Verdi del 1842 è già il maestro che esplora i contrasti dell’animo umano, e che ci consegna due ritratti memorabili di personaggi devastati dall’ambizione, come Nabucco e la figliastra Abigaille. Nabucco si ravvede, e ottiene il perdono divino insieme a un’investitura di monarca illuminato, riacquistando la ragione smarrita con l’atto di superbia. Troppo tardi arriva invece il pentimento di Abigaille, «una Amneris ante-litteram, », scrive Marco Marica nella guida all’ascolto (ricca di spunti critici di rilievo), «che come la sorella maggiore ha una spiccata propensione all’inganno e al comando». La mano di Verdi si rivela scaltra anche nell’inventare nuove modalità narrative, come accade all’inizio della parte quarta, quando impiega la banda in scena come segno sonoro per consentire lo svolgimento di due eventi in simultanea (ne scrivo più estesamente nel saggio e ne tratta anche Marica nella guida all’ascolto): la marcia al patibolo di Fenena, la figlia del protagonista convertita all’ebraismo, che si proietta nelle stanze dove Nabucco è preda della pazzia, e ne stimola il rinsavire. Tuttavia, come nota Guido Paduano, «quello che torna nelle mani del re risanato è un potere che corrisponde al ruolo di vassallo o ministro del vero Dio, e che si costituisce proprio attraverso la rinuncia alla volontà illimitata: “servendo a Jeovha / Sarai de’ regi il re”». Chiude la sezione saggistica di questo volume uno scritto dello storico Giuliano Procacci, il quale illustra con acume la posizione di Verdi nella storia d’Italia, e ritiene che «non solo Verdi non è nazionalpopolare “nel senso deteriore” e relativo, ma lo è nel senso più alto e assoluto», in accordo col Gramsci dei Quaderni dal carcere.

Giuseppe Verdi, «Nabucodonosor», «La Fenice prima dell’opera», 2008/8

GIRARDI, MICHELE
2008-01-01

Abstract

Il penultimo appuntamento del 2008 per «La Fenice prima dell’opera» è con Nabucodonosor, uno dei titoli più popolari e fra i più densi di implicazioni: il melodramma con cui Verdi afferrò a volo il successo che rischiava di sfuggirgli, dopo il tonfo di Un giorno di regno, ma anche quello in cui mise subito in mostra il suo ‘cuore di patriota’. Se il successo è dato incontestabile, solo dopo l’Unità d’Italia «Va pensiero», come spiega Claudio Toscani in questo volume, «diviene il simbolo dell’epoca risorgimentale: spento il fragore delle battaglie, il coro entra nella memoria collettiva come l’allegoria di quegli anni ormai lontani e idealizzati». Verdi stesso contribuì ad alimentare il mito di questo brano come pagina centrale di Nabucco, in una cronaca resa all’editore Giulio Ricordi nel 1879 (che discuto all’inizio della sezione saggistica). Verdi volle fissare allora, a beneficio dei posteri, un episodio esemplare dei suoi «anni di galera», al di là di quel che veramente accadde (il racconto è commovente e coinvolgente, ma si tratta pur sempre di un aneddoto). Rimane tuttavia un dato di fatto indiscutibile: basterebbero le pagine affidate agli ebrei esuli sulle rive dell’Eufrate per illuminare la vita di un artista. Un coro udito milioni di volte in tutti i teatri del mondo, e tanto rappresentativo di un sentimento di nostalgia (di patria, ma anche e soprattutto di ideali vilipesi) che negli ultimi anni da varie parti si è reclamato di recente, in palese contraddizione con le intenzioni di Verdi, che fosse adottato come nuovo inno d’Italia. Ma il Verdi del 1842 è già il maestro che esplora i contrasti dell’animo umano, e che ci consegna due ritratti memorabili di personaggi devastati dall’ambizione, come Nabucco e la figliastra Abigaille. Nabucco si ravvede, e ottiene il perdono divino insieme a un’investitura di monarca illuminato, riacquistando la ragione smarrita con l’atto di superbia. Troppo tardi arriva invece il pentimento di Abigaille, «una Amneris ante-litteram, », scrive Marco Marica nella guida all’ascolto (ricca di spunti critici di rilievo), «che come la sorella maggiore ha una spiccata propensione all’inganno e al comando». La mano di Verdi si rivela scaltra anche nell’inventare nuove modalità narrative, come accade all’inizio della parte quarta, quando impiega la banda in scena come segno sonoro per consentire lo svolgimento di due eventi in simultanea (ne scrivo più estesamente nel saggio e ne tratta anche Marica nella guida all’ascolto): la marcia al patibolo di Fenena, la figlia del protagonista convertita all’ebraismo, che si proietta nelle stanze dove Nabucco è preda della pazzia, e ne stimola il rinsavire. Tuttavia, come nota Guido Paduano, «quello che torna nelle mani del re risanato è un potere che corrisponde al ruolo di vassallo o ministro del vero Dio, e che si costituisce proprio attraverso la rinuncia alla volontà illimitata: “servendo a Jeovha / Sarai de’ regi il re”». Chiude la sezione saggistica di questo volume uno scritto dello storico Giuliano Procacci, il quale illustra con acume la posizione di Verdi nella storia d’Italia, e ritiene che «non solo Verdi non è nazionalpopolare “nel senso deteriore” e relativo, ma lo è nel senso più alto e assoluto», in accordo col Gramsci dei Quaderni dal carcere.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/141037
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