Nabucco fu l’opera con cui Verdi afferrò a volo il successo che rischiava di sfuggirgli, dopo il tonfo di Un giorno di regno, ma anche quella in cui mise subito in mostra il suo cuore di patriota con un coro, il «Va, pensiero», che entrò immediatamente nei petti infiammati di chi si proponeva di fare l’Italia. Se il successo è dato incontestabile, solo dopo l’Unità d’Italia il famoso coro, come spiega Claudio Toscani in questo volume, «diviene il simbolo dell’epoca risorgimentale: spento il fragore delle battaglie, il coro entra nella memoria collettiva come l’allegoria di quegli anni ormai lontani e idealizzati». Verdi stesso contribuì ad alimentare il mito di questo brano in una cronaca resa all’editore Giulio Ricordi nel 1879, che Marco Capra, autore dell’ampio saggio introduttivo, definisce, e a ragione, «imprescindibile, non foss’altro per la formidabile efficacia di una sceneggiatura che calibra e governa la successione degli eventi, con mano sicura e consapevolezza degli effetti, e che molto rivela di Verdi e del suo talento di narratore». E in effetti la sua mano è già scaltra nell’inventare nuove modalità narrative, come accade all’inizio della quarta parte, quando impiega la banda in scena come segno sonoro per consentire lo svolgimento di due eventi in simultanea: la marcia al patibolo di Fenena, la figlia del protagonista convertita all’ebraismo, che si proietta nelle stanze dove Nabucco è preda della pazzia, e ne stimola il rinsavire. «L’aspetto più sorprendente», scrive Marco Marica nella guida all’ascolto, «è che tutto ciò è trattato in forma di recitativo, con una musica ‘pittorica’ che cerca di illustrare non tanto i sentimenti del protagonista, quanto ciò che sta avvenendo intorno a lui (l’esecuzione di Fenena, i tuoni e i fulmini, la ‘voce’ di Dio), rendendo in maniera quasi ‘cinematografica’ due eventi che avvengono parallelamente sulla scena e dietro le quinte, cioè il rinsavimento del re e l’uccisione di Fenena». Tuttavia, come nota Guido Paduano, «quello che torna nelle mani del re risanato è un potere che corrisponde al ruolo di vassallo o ministro del vero Dio, e che si costituisce proprio attraverso la rinuncia alla volontà illimitata: “servendo a Jeovha / Sarai de’ regi il re”». Chiude la sezione saggistica di questo volume uno scritto dello storico Giuliano Procacci, che illustra con acume la posizione di Verdi nella storia d’Italia, rilevando che «ciò cui egli aspira è una politica, per così dire, allo stato puro, ridotta alla sua essenza più vera e depurata dalle scorie del compromesso e del raggiro. Una politica che non esiste». Difficile dar torto a Procacci, naturalmente, ma in quegli anni Quaranta era ancora tempo di sperare.

Giuseppe Verdi, «Nabucco», «La Fenice prima dell’opera», 2004/1

GIRARDI, MICHELE
2004-01-01

Abstract

Nabucco fu l’opera con cui Verdi afferrò a volo il successo che rischiava di sfuggirgli, dopo il tonfo di Un giorno di regno, ma anche quella in cui mise subito in mostra il suo cuore di patriota con un coro, il «Va, pensiero», che entrò immediatamente nei petti infiammati di chi si proponeva di fare l’Italia. Se il successo è dato incontestabile, solo dopo l’Unità d’Italia il famoso coro, come spiega Claudio Toscani in questo volume, «diviene il simbolo dell’epoca risorgimentale: spento il fragore delle battaglie, il coro entra nella memoria collettiva come l’allegoria di quegli anni ormai lontani e idealizzati». Verdi stesso contribuì ad alimentare il mito di questo brano in una cronaca resa all’editore Giulio Ricordi nel 1879, che Marco Capra, autore dell’ampio saggio introduttivo, definisce, e a ragione, «imprescindibile, non foss’altro per la formidabile efficacia di una sceneggiatura che calibra e governa la successione degli eventi, con mano sicura e consapevolezza degli effetti, e che molto rivela di Verdi e del suo talento di narratore». E in effetti la sua mano è già scaltra nell’inventare nuove modalità narrative, come accade all’inizio della quarta parte, quando impiega la banda in scena come segno sonoro per consentire lo svolgimento di due eventi in simultanea: la marcia al patibolo di Fenena, la figlia del protagonista convertita all’ebraismo, che si proietta nelle stanze dove Nabucco è preda della pazzia, e ne stimola il rinsavire. «L’aspetto più sorprendente», scrive Marco Marica nella guida all’ascolto, «è che tutto ciò è trattato in forma di recitativo, con una musica ‘pittorica’ che cerca di illustrare non tanto i sentimenti del protagonista, quanto ciò che sta avvenendo intorno a lui (l’esecuzione di Fenena, i tuoni e i fulmini, la ‘voce’ di Dio), rendendo in maniera quasi ‘cinematografica’ due eventi che avvengono parallelamente sulla scena e dietro le quinte, cioè il rinsavimento del re e l’uccisione di Fenena». Tuttavia, come nota Guido Paduano, «quello che torna nelle mani del re risanato è un potere che corrisponde al ruolo di vassallo o ministro del vero Dio, e che si costituisce proprio attraverso la rinuncia alla volontà illimitata: “servendo a Jeovha / Sarai de’ regi il re”». Chiude la sezione saggistica di questo volume uno scritto dello storico Giuliano Procacci, che illustra con acume la posizione di Verdi nella storia d’Italia, rilevando che «ciò cui egli aspira è una politica, per così dire, allo stato puro, ridotta alla sua essenza più vera e depurata dalle scorie del compromesso e del raggiro. Una politica che non esiste». Difficile dar torto a Procacci, naturalmente, ma in quegli anni Quaranta era ancora tempo di sperare.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/152110
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