Siamo nel 452, e gli esuli di Aquileia approdano in Rio-Alto, accolti dagli eremiti riuniti intorno al primo insediamento di quella che sarà poi Venezia: subito la loro guida profetizza la resurrezione della città, distrutta da Attila. «Qual risorta fenice novella», appunto: «ovvio il riferimento al teatro ove l’opera fu rappresentata per la prima volta, […] che in questi versi viene in un certo senso elevato a simbolo dell’intera città», nota Emanuele Senici in questo volume, nel momento stesso in cui ci avverte, tuttavia, di come nessun intento celebrativo fosse alla base di scelte come questa, visto che l’opera era destinata anzitutto all’impresario Lanari e al cast di cui poteva disporre, a Firenze così come a Venezia dove poi l’opera finì poi per andare in scena. Attila divide con altri titoli dei primi anni della carriera di Verdi, l’etichetta di opera risorgimentale, ma anche in questo caso, come già nel volume che abbiamo dedicato a Nabucco («La Fenice prima dell’Opera», 2004/1), i nostri collaboratori non concordano con le opinioni correnti. Guido Paduano, ad esempio, scrive che «si è ricorsi a un dramma ispirato dal nazionalismo germanico per esaltare un patriottismo italiano capace di accendersi pretestuosamente alla proposta di Ezio (“avrai tu l’universo, / Resti l’Italia a me”), che è invece un bell’esempio della politica mercantile e spartitoria “da basso impero”». A sua volta John Rosselli, che ipotizza un pensiero neoguelfo da parte di Solera, interpreta al meglio il ruolo dello storico nel dibattito interdisciplinare su Verdi, notando che «la famosa battuta “avrai tu l’universo, / resti l’Italia a me”, più specifica in Solera di quanto non lo fosse nella tragedia originale di Werner, non ha senso se considerata – come lo è stata dai fautori del Verdi ‘bardo’ del Risorgimento – un incitamento a un regno d’Italia totalmente indipendente». Essa «significa che la penisola avrà una larghissima autonomia sotto un imperatore molto distante, come sarebbe stato l’imperatore d’Austria se l’Italia avesse formato una federazione patrocinata dal Papa». Questo intervento, come quelli di Lorenzo Bianconi e Stefano Castelvecchi, sono le degne risposte alla stimolante relazione di base di Giuliano Procacci, che abbiamo ripubblicato nel volume dedicato a Nabucco, e completano il quadro della tavola rotonda dedicata a Verdi nella storia d’Italia nel convegno Verdi 2001, i cui esiti valeva la pena di riproporre sulle nostre pagine, allargando la cerchia dei fruitori, vista la qualità dei contributi e l’importanza del tema trattato. Marco Marica focalizza la nostra attenzione su altre possibili letture della trama di Attila, quando, dopo averla ripercorsa osservandone la singolare adesione a topoi dell’opera settecentesca, formula un interrogativo retorico: «Dove abbiamo già sentito questa storia?». Il dibattito è aperto, dunque. Per quel che mi riguarda sono attratto da Attila, specie quando alza incredulo gli occhi verso la donna che lo trafigge con la sua stessa spada, e riprende scopertamente l’apostrofe di Cesare morente a Bruto, «E tu pure, Odabella?», citazione che attesta un’etica superiore rispetto al manipolo di traditori che lo circonda.
Giuseppe Verdi, «Attila», «La Fenice prima dell’opera», 2004/3
GIRARDI, MICHELE
2004-01-01
Abstract
Siamo nel 452, e gli esuli di Aquileia approdano in Rio-Alto, accolti dagli eremiti riuniti intorno al primo insediamento di quella che sarà poi Venezia: subito la loro guida profetizza la resurrezione della città, distrutta da Attila. «Qual risorta fenice novella», appunto: «ovvio il riferimento al teatro ove l’opera fu rappresentata per la prima volta, […] che in questi versi viene in un certo senso elevato a simbolo dell’intera città», nota Emanuele Senici in questo volume, nel momento stesso in cui ci avverte, tuttavia, di come nessun intento celebrativo fosse alla base di scelte come questa, visto che l’opera era destinata anzitutto all’impresario Lanari e al cast di cui poteva disporre, a Firenze così come a Venezia dove poi l’opera finì poi per andare in scena. Attila divide con altri titoli dei primi anni della carriera di Verdi, l’etichetta di opera risorgimentale, ma anche in questo caso, come già nel volume che abbiamo dedicato a Nabucco («La Fenice prima dell’Opera», 2004/1), i nostri collaboratori non concordano con le opinioni correnti. Guido Paduano, ad esempio, scrive che «si è ricorsi a un dramma ispirato dal nazionalismo germanico per esaltare un patriottismo italiano capace di accendersi pretestuosamente alla proposta di Ezio (“avrai tu l’universo, / Resti l’Italia a me”), che è invece un bell’esempio della politica mercantile e spartitoria “da basso impero”». A sua volta John Rosselli, che ipotizza un pensiero neoguelfo da parte di Solera, interpreta al meglio il ruolo dello storico nel dibattito interdisciplinare su Verdi, notando che «la famosa battuta “avrai tu l’universo, / resti l’Italia a me”, più specifica in Solera di quanto non lo fosse nella tragedia originale di Werner, non ha senso se considerata – come lo è stata dai fautori del Verdi ‘bardo’ del Risorgimento – un incitamento a un regno d’Italia totalmente indipendente». Essa «significa che la penisola avrà una larghissima autonomia sotto un imperatore molto distante, come sarebbe stato l’imperatore d’Austria se l’Italia avesse formato una federazione patrocinata dal Papa». Questo intervento, come quelli di Lorenzo Bianconi e Stefano Castelvecchi, sono le degne risposte alla stimolante relazione di base di Giuliano Procacci, che abbiamo ripubblicato nel volume dedicato a Nabucco, e completano il quadro della tavola rotonda dedicata a Verdi nella storia d’Italia nel convegno Verdi 2001, i cui esiti valeva la pena di riproporre sulle nostre pagine, allargando la cerchia dei fruitori, vista la qualità dei contributi e l’importanza del tema trattato. Marco Marica focalizza la nostra attenzione su altre possibili letture della trama di Attila, quando, dopo averla ripercorsa osservandone la singolare adesione a topoi dell’opera settecentesca, formula un interrogativo retorico: «Dove abbiamo già sentito questa storia?». Il dibattito è aperto, dunque. Per quel che mi riguarda sono attratto da Attila, specie quando alza incredulo gli occhi verso la donna che lo trafigge con la sua stessa spada, e riprende scopertamente l’apostrofe di Cesare morente a Bruto, «E tu pure, Odabella?», citazione che attesta un’etica superiore rispetto al manipolo di traditori che lo circonda.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.