Die tote Stadt è il capolavoro di Erich Wolfgang Korngold, un compositore appena ventitreenne, ma già sufficientemente maturo per di un argomento assai scabroso. Poche protagoniste, prima di Marietta, avevano esibito una disinvoltura passionale così esasperata, anche se sottomessa a un meccanismo drammatico implacabile: la ballerina di Korngold viene fagocitata in un meccanismo che l’annienta. La sua liaison dangereuse con Paul, vedovo inconsolabile al punto di conservare in uno scrigno di vetro una treccia dei capelli d’oro della defunta Marie (a cui Marietta assomiglia come una goccia d’acqua), conosce un esito cruento, dai risvolti ben più che macabri. L’ultima danza sfrenata davanti al santuario, finalmente in casa della sua rivale, è anche una sfida al potere della defunta, la cui treccia di capelli finisce per trasformarsi, nelle mani dell’infuriato Paul, in un cappio che la stringe alla gola sino a soffocarla. Se Die tote Stadt finisse qui, in un clima sonoro tesissimo in orchestra, con le voci dei due amanti spinte al parossismo, si potrebbe quasi credere di trovarsi in un dramma ‘verista’ (si tratta anche di gelosia e di passione, in fondo), nobilitato dalla miriade di simboli che rendono più complessa la ricezione della vicenda, e da un’attenzione rivolta all’animo umano come fonte di passioni e perversioni che risente di tendenze espressioniste, allora poco più che all’esordio sulle scene europee. Ma tutto avviene in un sogno che inizia nel finale primo, quando Paul cade addormentato a colloquio immaginario con l’apparizione della moglie, per risvegliarsi nella scena conclusiva, dopo aver commesso il delitto, nella stessa posizione in cui tutto era cominciato. Ci spiega tutto nel saggio iniziale Arne Stollberg, autore di un libro fondamentale dedicato a Die tote Stadt. Freud in scena, dunque, e con esiti godibilissimi dal punto di vista teatrale. Chissà che sarebbe potuto accadere nelle scene liriche del tempo, si chiede Enrico Maria Ferrando (che ha affrontato il compito improbo di curare il libretto e redigere la guida a una partitura fra le più complesse) se l’ascesa del nazismo non avesse spezzato la carriera europea del compositore. Erich si salvò accettando l’invito di Max Reinhardt, che lo volle a Hollywood per collaborare alla colonna sonora della sua pellicola shakespeariana A Midsummer Night’s Dream (1935). Della carriera statunitense del compositore si occupa Roberto Calabretto nel secondo saggio: ne esce il ritratto a tutto tondo di un artista dalle smisurate capacità tecniche al servizio di un estro inesauribile, in grado di influenzare profondamente il genere della musica da film. Arricchiscono questo volume un’intervista a Puccini, che predice al giovane Korngold un ruolo di primo piano, e la nuova traduzione italiana del libretto di Anna Maria Morazzoni.
Erich Wolfgang Korngold, «Die tote Stadt», «La Fenice prima dell’opera», 2009/1
GIRARDI, MICHELE
2009-01-01
Abstract
Die tote Stadt è il capolavoro di Erich Wolfgang Korngold, un compositore appena ventitreenne, ma già sufficientemente maturo per di un argomento assai scabroso. Poche protagoniste, prima di Marietta, avevano esibito una disinvoltura passionale così esasperata, anche se sottomessa a un meccanismo drammatico implacabile: la ballerina di Korngold viene fagocitata in un meccanismo che l’annienta. La sua liaison dangereuse con Paul, vedovo inconsolabile al punto di conservare in uno scrigno di vetro una treccia dei capelli d’oro della defunta Marie (a cui Marietta assomiglia come una goccia d’acqua), conosce un esito cruento, dai risvolti ben più che macabri. L’ultima danza sfrenata davanti al santuario, finalmente in casa della sua rivale, è anche una sfida al potere della defunta, la cui treccia di capelli finisce per trasformarsi, nelle mani dell’infuriato Paul, in un cappio che la stringe alla gola sino a soffocarla. Se Die tote Stadt finisse qui, in un clima sonoro tesissimo in orchestra, con le voci dei due amanti spinte al parossismo, si potrebbe quasi credere di trovarsi in un dramma ‘verista’ (si tratta anche di gelosia e di passione, in fondo), nobilitato dalla miriade di simboli che rendono più complessa la ricezione della vicenda, e da un’attenzione rivolta all’animo umano come fonte di passioni e perversioni che risente di tendenze espressioniste, allora poco più che all’esordio sulle scene europee. Ma tutto avviene in un sogno che inizia nel finale primo, quando Paul cade addormentato a colloquio immaginario con l’apparizione della moglie, per risvegliarsi nella scena conclusiva, dopo aver commesso il delitto, nella stessa posizione in cui tutto era cominciato. Ci spiega tutto nel saggio iniziale Arne Stollberg, autore di un libro fondamentale dedicato a Die tote Stadt. Freud in scena, dunque, e con esiti godibilissimi dal punto di vista teatrale. Chissà che sarebbe potuto accadere nelle scene liriche del tempo, si chiede Enrico Maria Ferrando (che ha affrontato il compito improbo di curare il libretto e redigere la guida a una partitura fra le più complesse) se l’ascesa del nazismo non avesse spezzato la carriera europea del compositore. Erich si salvò accettando l’invito di Max Reinhardt, che lo volle a Hollywood per collaborare alla colonna sonora della sua pellicola shakespeariana A Midsummer Night’s Dream (1935). Della carriera statunitense del compositore si occupa Roberto Calabretto nel secondo saggio: ne esce il ritratto a tutto tondo di un artista dalle smisurate capacità tecniche al servizio di un estro inesauribile, in grado di influenzare profondamente il genere della musica da film. Arricchiscono questo volume un’intervista a Puccini, che predice al giovane Korngold un ruolo di primo piano, e la nuova traduzione italiana del libretto di Anna Maria Morazzoni.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.