Di Puccini musicista internazionale. e primo italiano a dichiararsi wagneriano fervente con le partiture, e non a parole, si occupa questo numero della «Fenice prima dell’Opera», che ospita nella sezione saggistica le opinioni di due studiosi giovani, ma già noti ai lettori della nostra serie, e soprattutto capaci di offrire alla ricerca prospettive nuove. Riccardo Pecci si concentra sulla drammaturgia musicale di questa prima, autentica pietra miliare del teatro pucciniano, mettendo a fuoco un aspetto che catalizza i fili narrativi intessuti da temi e motivi: la compulsione, ossia una coazione a ripetere dai tratti ossessivi, che sarebbe «addirittura il tema centrale dell’opera – possiamo perfino vederla celata sotto la nota formula con la quale la premessa al libretto [di Luigi Illica, la si legga qui, a p. 52] ritrae Manon (descritta come un “bizzarro contrasto di amore, di civetteria, di venalità, di seduzione”). Giacché sono appunto le manifestazioni compulsive “di civetteria, di venalità, di seduzione”, a generare il “bizzarro contrasto” con la Manon ‘amorosa’, e a mettere in moto ed articolare la vicenda». D’Angelo, dal canto suo, in controtendenza rispetto alle considerazioni della critica (anche se non tutta, del resto), ritiene che il libretto di Manon Lescaut non sia «privo di fascino. Di certo è un libretto strano, perché le tante, troppe mani di drammaturghi e poeti (Marco Praga, Domenico Oliva, Ruggero Leoncavallo, Luigi Illica ecc.) che lo hanno modellato, spesso nervosamente, sono senza dubbio una stranezza. Ed è anche un libretto ‘militante’, perché la riscrittura pucciniana dell’Histoire du chevalier des Grieux et de Manon Lescaut dell’abate Prévost doveva fare necessariamente i conti col recentissimo successo dell’analoga opera di Massenet (1884), evitando di ripeterne dappresso i tratti e mirando all’originalità». La disfida ebbe a stimolare l’estro pucciniano, e produsse inoltre due punti di vista diversi sulla medesima vicenda, entrambi imprescindibili, magari forzando positivamente la mano del lucchese, che risulta in fin dei conti responsabile di una drammaturgia nuova (d’Angelo fa notare specialmente il rapporto fra antico e moderno nel linguaggio, come importante snodo drammaturgico), imperniata su ellissi della narrazione che rendono assai più forte la portata emblematica dell’amore di Manon, e lo assolutizzano. Non solo manca la «petite table» dell’atto secondo di Massenet, che simboleggia la felicità dei due giovani amanti, ma non sappiamo nemmeno, se non per un cenno alla sua «beltà funesta» nell’aria «Sola… perduta… abbandonata!…», le ragioni che portano l’eroina a inoltrarsi nel deserto della Louisiana insieme all’amante, fino allo sfinimento e alla morte. Ho cercato di dare qualche motivazione a queste scelte fra le righe della guida all’opera, un lavoro che mi ha fatto cambiare tante opinioni su Manon Lescaut, e mi ha persuaso che si tratti di un capolavoro unico. E, seguendo le ottime argomentazioni di d’Angelo, mi sono convinto che «i veri responsabili del testo siano di fatto i soli Oliva e Illica», vale a dire una coppia dove quest’ultimo è il perno della drammaturgia, e Oliva è il poeta, come poi lo sarebbe stato Giacosa. L’edizione del libretto, che ho curato personalmente, prevede anche il finale originale dell’atto primo.

Giacomo Puccini, «Manon Lescaut», «La Fenice prima dell’opera», 2010/1

GIRARDI, MICHELE
2010-01-01

Abstract

Di Puccini musicista internazionale. e primo italiano a dichiararsi wagneriano fervente con le partiture, e non a parole, si occupa questo numero della «Fenice prima dell’Opera», che ospita nella sezione saggistica le opinioni di due studiosi giovani, ma già noti ai lettori della nostra serie, e soprattutto capaci di offrire alla ricerca prospettive nuove. Riccardo Pecci si concentra sulla drammaturgia musicale di questa prima, autentica pietra miliare del teatro pucciniano, mettendo a fuoco un aspetto che catalizza i fili narrativi intessuti da temi e motivi: la compulsione, ossia una coazione a ripetere dai tratti ossessivi, che sarebbe «addirittura il tema centrale dell’opera – possiamo perfino vederla celata sotto la nota formula con la quale la premessa al libretto [di Luigi Illica, la si legga qui, a p. 52] ritrae Manon (descritta come un “bizzarro contrasto di amore, di civetteria, di venalità, di seduzione”). Giacché sono appunto le manifestazioni compulsive “di civetteria, di venalità, di seduzione”, a generare il “bizzarro contrasto” con la Manon ‘amorosa’, e a mettere in moto ed articolare la vicenda». D’Angelo, dal canto suo, in controtendenza rispetto alle considerazioni della critica (anche se non tutta, del resto), ritiene che il libretto di Manon Lescaut non sia «privo di fascino. Di certo è un libretto strano, perché le tante, troppe mani di drammaturghi e poeti (Marco Praga, Domenico Oliva, Ruggero Leoncavallo, Luigi Illica ecc.) che lo hanno modellato, spesso nervosamente, sono senza dubbio una stranezza. Ed è anche un libretto ‘militante’, perché la riscrittura pucciniana dell’Histoire du chevalier des Grieux et de Manon Lescaut dell’abate Prévost doveva fare necessariamente i conti col recentissimo successo dell’analoga opera di Massenet (1884), evitando di ripeterne dappresso i tratti e mirando all’originalità». La disfida ebbe a stimolare l’estro pucciniano, e produsse inoltre due punti di vista diversi sulla medesima vicenda, entrambi imprescindibili, magari forzando positivamente la mano del lucchese, che risulta in fin dei conti responsabile di una drammaturgia nuova (d’Angelo fa notare specialmente il rapporto fra antico e moderno nel linguaggio, come importante snodo drammaturgico), imperniata su ellissi della narrazione che rendono assai più forte la portata emblematica dell’amore di Manon, e lo assolutizzano. Non solo manca la «petite table» dell’atto secondo di Massenet, che simboleggia la felicità dei due giovani amanti, ma non sappiamo nemmeno, se non per un cenno alla sua «beltà funesta» nell’aria «Sola… perduta… abbandonata!…», le ragioni che portano l’eroina a inoltrarsi nel deserto della Louisiana insieme all’amante, fino allo sfinimento e alla morte. Ho cercato di dare qualche motivazione a queste scelte fra le righe della guida all’opera, un lavoro che mi ha fatto cambiare tante opinioni su Manon Lescaut, e mi ha persuaso che si tratti di un capolavoro unico. E, seguendo le ottime argomentazioni di d’Angelo, mi sono convinto che «i veri responsabili del testo siano di fatto i soli Oliva e Illica», vale a dire una coppia dove quest’ultimo è il perno della drammaturgia, e Oliva è il poeta, come poi lo sarebbe stato Giacosa. L’edizione del libretto, che ho curato personalmente, prevede anche il finale originale dell’atto primo.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/225727
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