«La Fenice prima dell’opera» chiude l’annata 2004-2005 con un opéra-bouffe, impropriamente definito operetta, come attesta Marco Marica nel saggio iniziale, preferendo il termine di Offenbachiade, oggi in uso dagli studiosi proprio per esaltare le peculiarità del teatro di Offenbach. Teatro d’enorme successo, all’epoca del Secondo Impero, e con una marcia in più rispetto ad altri generi ‘leggeri’, visto che il suo impatto è stato ed è garantito nel mondo intero perché il compositore ha saputo sganciare «lo spirito della parodia (possibile in ogni forma di teatro) dal procedimento della parodia stessa (possibile solo quando si conosca anche l’oggetto parodiato)», come scrive Marica. Certo, per il pubblico odierno, è difficile cogliere riferimenti che all’epoca, e a Parigi per di più, erano riconoscibili al volo, come la garbata messa alla berlina di momenti chiave delle opere di Meyerbeer (ma anche di Rossini, e di tanti altri) che innervavano il repertorio serio dell’Opéra. Per agevolare il lettore Marco Gurrieri, autore della guida all’ascolto e curatore dell’edizione del libretto, ha provvisto di riferimenti soprattutto i passi che potrebbero suonare più ‘gergali’, supplendo con qualche notizia in più l’inevitabile mancanza del contatto originale. Non è l’unica particolarità di questa sezione: in questo volume pubblichiamo, infatti, un’edizione del libretto che segue (e perfeziona, sulla base di edizioni a stampa successive) il Livret de censure, documento prezioso degli archivi parigini riportato alla luce da Jean-Christophe Keck (curatore dell’edizione critica delle opere di Offenbach, che si udrà e vedrà alla Fenice in queste recite). Rimandiamo alla prefazione per notizie ulteriori sulla partitura, ma intanto preme far notare che si potranno leggere nella loro integrità i dialoghi che Offenbach stesso, e i suoi collaboratori, preferirono tagliare dopo la prima, per non allungare i tempi della recita, già notevoli. Dalla lettura sarà agevole comprendere che questo genere di teatro esigeva interpreti che fossero un po’ cantanti e un po’ attori, come Hortense Schneider, inarrivabile musa ispiratrice di Offenbach. Già, Offenbach, a cui Davide Daolmi ha voluto dare ‘direttamente’ la parola, immaginando un breve monologo-intervista che non mancherà d’interessare e divertire il lettore, ricco com’è di osservazioni brillanti e piene di buon senso. Un saggio della sua lungimiranza, rivolto all’‘intervistatore’: «Crede che qualcuno si sia mai dimenticato che ero nato in Germania? Ovviamente la Parigi imperiale non si formalizzava per queste cose, perché la sicurezza di dominare un impero le permetteva di tollerare l’inesauribile diversità del genere umano». Cosmopolita per necessità, a cavallo di tante culture diverse, anche Offenbach, il «Mozart des Champs-Elysées», com’è stato soprannominato (per la qualità della sua musica), conosceva in prima persona le follie del genere umano, e forse per questo La Grande-Duchesse, tra i suoi massimi capolavori, è anche la satira più riuscita e penetrante della guerra e di tutti i suoi attori-fantocci, nessuno escluso, che mai come ora suona terribilmente attuale. Alla fine, on doit aimer ce que l’on a, come si rassegna a fare la protagonista, e come si adattano a fare i più, in epoche dove l’apparenza sostiene falsi valori.

Jacques Offenbach, «La Grande-Duchesse de Gérolstein», «La Fenice prima dell’opera», 2004-2005/9

GIRARDI, MICHELE
2005-01-01

Abstract

«La Fenice prima dell’opera» chiude l’annata 2004-2005 con un opéra-bouffe, impropriamente definito operetta, come attesta Marco Marica nel saggio iniziale, preferendo il termine di Offenbachiade, oggi in uso dagli studiosi proprio per esaltare le peculiarità del teatro di Offenbach. Teatro d’enorme successo, all’epoca del Secondo Impero, e con una marcia in più rispetto ad altri generi ‘leggeri’, visto che il suo impatto è stato ed è garantito nel mondo intero perché il compositore ha saputo sganciare «lo spirito della parodia (possibile in ogni forma di teatro) dal procedimento della parodia stessa (possibile solo quando si conosca anche l’oggetto parodiato)», come scrive Marica. Certo, per il pubblico odierno, è difficile cogliere riferimenti che all’epoca, e a Parigi per di più, erano riconoscibili al volo, come la garbata messa alla berlina di momenti chiave delle opere di Meyerbeer (ma anche di Rossini, e di tanti altri) che innervavano il repertorio serio dell’Opéra. Per agevolare il lettore Marco Gurrieri, autore della guida all’ascolto e curatore dell’edizione del libretto, ha provvisto di riferimenti soprattutto i passi che potrebbero suonare più ‘gergali’, supplendo con qualche notizia in più l’inevitabile mancanza del contatto originale. Non è l’unica particolarità di questa sezione: in questo volume pubblichiamo, infatti, un’edizione del libretto che segue (e perfeziona, sulla base di edizioni a stampa successive) il Livret de censure, documento prezioso degli archivi parigini riportato alla luce da Jean-Christophe Keck (curatore dell’edizione critica delle opere di Offenbach, che si udrà e vedrà alla Fenice in queste recite). Rimandiamo alla prefazione per notizie ulteriori sulla partitura, ma intanto preme far notare che si potranno leggere nella loro integrità i dialoghi che Offenbach stesso, e i suoi collaboratori, preferirono tagliare dopo la prima, per non allungare i tempi della recita, già notevoli. Dalla lettura sarà agevole comprendere che questo genere di teatro esigeva interpreti che fossero un po’ cantanti e un po’ attori, come Hortense Schneider, inarrivabile musa ispiratrice di Offenbach. Già, Offenbach, a cui Davide Daolmi ha voluto dare ‘direttamente’ la parola, immaginando un breve monologo-intervista che non mancherà d’interessare e divertire il lettore, ricco com’è di osservazioni brillanti e piene di buon senso. Un saggio della sua lungimiranza, rivolto all’‘intervistatore’: «Crede che qualcuno si sia mai dimenticato che ero nato in Germania? Ovviamente la Parigi imperiale non si formalizzava per queste cose, perché la sicurezza di dominare un impero le permetteva di tollerare l’inesauribile diversità del genere umano». Cosmopolita per necessità, a cavallo di tante culture diverse, anche Offenbach, il «Mozart des Champs-Elysées», com’è stato soprannominato (per la qualità della sua musica), conosceva in prima persona le follie del genere umano, e forse per questo La Grande-Duchesse, tra i suoi massimi capolavori, è anche la satira più riuscita e penetrante della guerra e di tutti i suoi attori-fantocci, nessuno escluso, che mai come ora suona terribilmente attuale. Alla fine, on doit aimer ce que l’on a, come si rassegna a fare la protagonista, e come si adattano a fare i più, in epoche dove l’apparenza sostiene falsi valori.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/26405
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