Tom Rakewell, arricchitosi inopinatamente, si diverte in un bordello grazie ai buoni uffici della sua ‘ombra’ Nick Shadow (siamo nel secondo quadro dell’atto iniziale), quando una pendola a cucù batte i dodici colpi della mezzanotte, perfettamente sincronizzata su un arpeggio discendente di dodici note ripartito fra trombe e fagotti, mentre oboi, flauti e clarinetti, e infine i corni, si raggrumano in un accordo di cinque suoni. Dodici note: è l’ora del diavolo che suona, perché poco prima l’orologio stava per battere l’una, interrompendo le orge del ‘libertino’. È bastato un gesto imperioso di Shadow per riportare indietro le lancette: «The hours obey your pleasure». Il dado è tratto: Nick porterà per mano il nostro povero eroe sprofondandolo in un percorso di disintegrazione fino alla scena seconda e penultima dell’atto conclusivo, ambientata in un cimitero ch’è riferimento intertestuale scoperto di grande pregnanza rivolto alla fine dell’eroe in Don Giovanni. Ma il nostro, in qualche maniera, si riscatta e dunque si salva: una campana da fuori scena inizia a battere la mezzanotte, e anche stavolta è l’ora del diavolo. Shadow-Belzebù reclama l’anima dell’uomo che ha servito a puntino sin qui per un anno e un giorno, ma una volta giunto al nono rintocco ferma con un gesto secco la campana e concede una chance a Tom, che vince di slancio una partita a carte dov’è in palio la sua vita evocando l’amata Anne. Il tempo rallenta, con effetto straordinario, mettendo a fuoco gli ultimi tre rintocchi per ognuna delle carte che vengono estratte dal mazzo: dodici Fa, nove più tre, scolpiscono un’invenzione drammatica potente che traccia l’arco della vicenda, dall’inizio della peripezia fino alla catastrofe. Il cammino del nostro debole eroe è ricco di allusioni intertestuali, che si dipanano in tutte le direzioni, e la scadenza della mezzanotte sancita dalle campane ne richiama tante altre, da quelle del Faust di Busoni e Marlowe (ma senza bronzi), ai dodici rintocchi della strega evocata da Ferrando nel Trovatore, a quelli dell’ultimo quadro di Falstaff (anch’essi sul Fa, ma con armonie magicamente cangianti). Peraltro il passo sopra citato contiene un riferimento che merita attenzione. Sul tempo forte della terza battuta, infatti, risuona un accordo di cinque suoni dove la nona, Do, si trova sotto alla fondamentale Si bemolle: la situazione armonica ‘irregolare’ è famosa perché Schönberg l’aveva descritta nel suo Harmonielehre a proposito del sestetto Verklärte Nacht, dove aveva usato un accordo di nona in quarto rivolto che gli era costato l’esclusione del meraviglioso sestetto da un programma di concerto del Tonkünstlerverein di Vienna. Naturalmente Stravinskij non ha citato Schönberg di proposito, ma la coincidenza fra i due passaggi è in ogni caso significativa, anche se fosse dovuta solo a un ricordo inconscio (Stravinskij, tuttavia, era fra le orecchie più lucide di ogni tempo, vigili sino al minimo dettaglio). Due anni prima del Rake’s Schönberg era stato contrapposto a Stravinskij da Theodor Wiesengrund Adorno, nella Philosophie der neuen Musik (1949), che assegnava all’austriaco il ruolo del progressista e al russo quello del reazionario. Un’opposizione infelice, a sua volta recepita infelicemente dalla critica successiva, e nodo gordiano dal quale ci siamo oggi districati, per fortuna. Nel saggio iniziale di questo volume, Luca Fontana illustra brillantemente il lavoro dei tre autori dell’opera, e mette nel giusto rilievo il ruolo di Auden e Kallman, in un incrocio di ‘maniere’ con Stravinskij ch’è chiave ermeneutica più proficua dei cozzi estetici adorniani. Adriana Guarnieri sceglie sei recensioni fra quelle apparse all’indomani della première veneziana – fra le quali emerge l’articolo di Emilia Zanetti, a mio avviso –, e le commenta con acume. Chiude la sezione iniziale una breve ma significativa intervista al regista della produzione che va ora in scena alla Fenice sessantatré anni dopo quella – in prima assoluta – diretta dall’autore, nella quale Damiano Michieletto coglie un importante tratto drammaturgico nella costellazione dei personaggi del Rake’s Progress, che chiarisce la differenza sostanziale tra i due ‘libertini’ Tom e Don Giovanni: «Don Giovanni oltre a essere libertino, ha in sé una parte diabolica che porta tutto all’estremo e all’esasperazione e gioca con gli altri personaggi, così come fa Nick Shadow» (del resto, come sottolinea Luca Fontana, più che con «libertino» rake andrebbe tradotto con «puttaniere», «incauto» e «spendaccione»). Dopo Elegy for Young Lovers pubblichiamo in questo volume un altro capolavoro sommo della librettistica novecentesca, con l’esaustiva guida all’opera di Emanuele Bonomi (autore di una bibliografia particolarmente imponente), in un’impaginazione allineata con le norme della poesia inglese, costata anche stavolta molto tempo alla nostra redazione. Credo che ne sia valsa la pena, e che sia doveroso rendere onore al talento drammatico e formale di Kallman e Auden. Del quale do volentieri un’ultima prova citando un bigliettino che Auden, novello Boito con Verdi, inviò in francese a Stravinskij mentre lavorava al libretto: Promemoria. Atto I, sc. I. Credo che sarebbe meglio se a morire fosse uno zio sconosciuto all’eroe invece del padre, perché così la ricchezza giungerebbe del tutto imprevista, e l’aura pastorale non verrebbe interrotta dal dolore, ma solamente dalla presenza sinistra del vilain [Shadow] [...]. P.S. Non so dirle che piacere è per me collaborare con lei. Temevo tanto che lei fosse una prima donna.

Igor Stravinskij, «The Rake’s Progress»

GIRARDI, MICHELE
2014-01-01

Abstract

Tom Rakewell, arricchitosi inopinatamente, si diverte in un bordello grazie ai buoni uffici della sua ‘ombra’ Nick Shadow (siamo nel secondo quadro dell’atto iniziale), quando una pendola a cucù batte i dodici colpi della mezzanotte, perfettamente sincronizzata su un arpeggio discendente di dodici note ripartito fra trombe e fagotti, mentre oboi, flauti e clarinetti, e infine i corni, si raggrumano in un accordo di cinque suoni. Dodici note: è l’ora del diavolo che suona, perché poco prima l’orologio stava per battere l’una, interrompendo le orge del ‘libertino’. È bastato un gesto imperioso di Shadow per riportare indietro le lancette: «The hours obey your pleasure». Il dado è tratto: Nick porterà per mano il nostro povero eroe sprofondandolo in un percorso di disintegrazione fino alla scena seconda e penultima dell’atto conclusivo, ambientata in un cimitero ch’è riferimento intertestuale scoperto di grande pregnanza rivolto alla fine dell’eroe in Don Giovanni. Ma il nostro, in qualche maniera, si riscatta e dunque si salva: una campana da fuori scena inizia a battere la mezzanotte, e anche stavolta è l’ora del diavolo. Shadow-Belzebù reclama l’anima dell’uomo che ha servito a puntino sin qui per un anno e un giorno, ma una volta giunto al nono rintocco ferma con un gesto secco la campana e concede una chance a Tom, che vince di slancio una partita a carte dov’è in palio la sua vita evocando l’amata Anne. Il tempo rallenta, con effetto straordinario, mettendo a fuoco gli ultimi tre rintocchi per ognuna delle carte che vengono estratte dal mazzo: dodici Fa, nove più tre, scolpiscono un’invenzione drammatica potente che traccia l’arco della vicenda, dall’inizio della peripezia fino alla catastrofe. Il cammino del nostro debole eroe è ricco di allusioni intertestuali, che si dipanano in tutte le direzioni, e la scadenza della mezzanotte sancita dalle campane ne richiama tante altre, da quelle del Faust di Busoni e Marlowe (ma senza bronzi), ai dodici rintocchi della strega evocata da Ferrando nel Trovatore, a quelli dell’ultimo quadro di Falstaff (anch’essi sul Fa, ma con armonie magicamente cangianti). Peraltro il passo sopra citato contiene un riferimento che merita attenzione. Sul tempo forte della terza battuta, infatti, risuona un accordo di cinque suoni dove la nona, Do, si trova sotto alla fondamentale Si bemolle: la situazione armonica ‘irregolare’ è famosa perché Schönberg l’aveva descritta nel suo Harmonielehre a proposito del sestetto Verklärte Nacht, dove aveva usato un accordo di nona in quarto rivolto che gli era costato l’esclusione del meraviglioso sestetto da un programma di concerto del Tonkünstlerverein di Vienna. Naturalmente Stravinskij non ha citato Schönberg di proposito, ma la coincidenza fra i due passaggi è in ogni caso significativa, anche se fosse dovuta solo a un ricordo inconscio (Stravinskij, tuttavia, era fra le orecchie più lucide di ogni tempo, vigili sino al minimo dettaglio). Due anni prima del Rake’s Schönberg era stato contrapposto a Stravinskij da Theodor Wiesengrund Adorno, nella Philosophie der neuen Musik (1949), che assegnava all’austriaco il ruolo del progressista e al russo quello del reazionario. Un’opposizione infelice, a sua volta recepita infelicemente dalla critica successiva, e nodo gordiano dal quale ci siamo oggi districati, per fortuna. Nel saggio iniziale di questo volume, Luca Fontana illustra brillantemente il lavoro dei tre autori dell’opera, e mette nel giusto rilievo il ruolo di Auden e Kallman, in un incrocio di ‘maniere’ con Stravinskij ch’è chiave ermeneutica più proficua dei cozzi estetici adorniani. Adriana Guarnieri sceglie sei recensioni fra quelle apparse all’indomani della première veneziana – fra le quali emerge l’articolo di Emilia Zanetti, a mio avviso –, e le commenta con acume. Chiude la sezione iniziale una breve ma significativa intervista al regista della produzione che va ora in scena alla Fenice sessantatré anni dopo quella – in prima assoluta – diretta dall’autore, nella quale Damiano Michieletto coglie un importante tratto drammaturgico nella costellazione dei personaggi del Rake’s Progress, che chiarisce la differenza sostanziale tra i due ‘libertini’ Tom e Don Giovanni: «Don Giovanni oltre a essere libertino, ha in sé una parte diabolica che porta tutto all’estremo e all’esasperazione e gioca con gli altri personaggi, così come fa Nick Shadow» (del resto, come sottolinea Luca Fontana, più che con «libertino» rake andrebbe tradotto con «puttaniere», «incauto» e «spendaccione»). Dopo Elegy for Young Lovers pubblichiamo in questo volume un altro capolavoro sommo della librettistica novecentesca, con l’esaustiva guida all’opera di Emanuele Bonomi (autore di una bibliografia particolarmente imponente), in un’impaginazione allineata con le norme della poesia inglese, costata anche stavolta molto tempo alla nostra redazione. Credo che ne sia valsa la pena, e che sia doveroso rendere onore al talento drammatico e formale di Kallman e Auden. Del quale do volentieri un’ultima prova citando un bigliettino che Auden, novello Boito con Verdi, inviò in francese a Stravinskij mentre lavorava al libretto: Promemoria. Atto I, sc. I. Credo che sarebbe meglio se a morire fosse uno zio sconosciuto all’eroe invece del padre, perché così la ricchezza giungerebbe del tutto imprevista, e l’aura pastorale non verrebbe interrotta dal dolore, ma solamente dalla presenza sinistra del vilain [Shadow] [...]. P.S. Non so dirle che piacere è per me collaborare con lei. Temevo tanto che lei fosse una prima donna.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/895436
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