Sviluppatosi sul piano della polemica politica, più che su quello della riflessione filosofica, il dibattito – che ha diviso, negli anni trenta del secolo scorso, il campo di scrittori e militanti antifascisti – sul nesso tra violenza e potere costituito esibisce alcuni aspetti, ancora rintracciabili in posizioni politiche odierne, che sono riconducibili a un’interpretazione naturalista del fenomeno della violenza: in essa, la violenza politica, anziché come la variabile funzionale di una prassi determinata, è considerata – in alcuni casi sul piano psicologico, in altri su quello sociologico, talvolta, anche, su quello ontologico e assiologico – come un dato di fatto. Nel criticare i presupposti filosofici di questa concezione, intendiamo sostenere che la violenza, all’interno della pratica politica, non deve essere considerata né come una datità oggettuale (inerente la psicologia di individui o gruppi, oppure l’assetto strutturale di alcune società), né come un valore (positivo o negativo), bensì come la funzione di rapporti sociali storicamente determinati. Esamineremo, anzitutto, che cosa comporti il rifiuto della violenza in quanto tale, in particolare quando esso sia dichiarato da parte di soggetti, individuali e collettivi, che abbiano di mira la trasformazione dei rapporti esistenti nel senso dell’estensione di diritti e opportunità materiali alla maggior parte possibile degli uomini (§ 1). In secondo luogo, analizzando la posizione di Georges Sorel e quella di Walter Benjamin, metteremo a fuoco ciò che definiamo come «interpretazione naturalista» della violenza, interpretazione che è sottesa alla considerazione della violenza come passibile, in quanto dato di fatto, di valutazione e che costituisce il presupposto del rifiuto della violenza in quanto tale (§ 2). Delineeremo infine, sulla scorta delle indicazioni di Karl Marx, un’interpretazione legittimativa del fenomeno della violenza, che le assegna il ruolo di variabile funzionale di prassi sociali storicamente determinate e la considera come valutabile in ordine all’identità che attraverso esse si configura e si legittima (§ 3).
Legalità e pacifismo. Interpretazione naturalista e interpretazione legittimativa della violenza
CASSINARI, FLAVIO ELIGIO OTTAVIO
2004-01-01
Abstract
Sviluppatosi sul piano della polemica politica, più che su quello della riflessione filosofica, il dibattito – che ha diviso, negli anni trenta del secolo scorso, il campo di scrittori e militanti antifascisti – sul nesso tra violenza e potere costituito esibisce alcuni aspetti, ancora rintracciabili in posizioni politiche odierne, che sono riconducibili a un’interpretazione naturalista del fenomeno della violenza: in essa, la violenza politica, anziché come la variabile funzionale di una prassi determinata, è considerata – in alcuni casi sul piano psicologico, in altri su quello sociologico, talvolta, anche, su quello ontologico e assiologico – come un dato di fatto. Nel criticare i presupposti filosofici di questa concezione, intendiamo sostenere che la violenza, all’interno della pratica politica, non deve essere considerata né come una datità oggettuale (inerente la psicologia di individui o gruppi, oppure l’assetto strutturale di alcune società), né come un valore (positivo o negativo), bensì come la funzione di rapporti sociali storicamente determinati. Esamineremo, anzitutto, che cosa comporti il rifiuto della violenza in quanto tale, in particolare quando esso sia dichiarato da parte di soggetti, individuali e collettivi, che abbiano di mira la trasformazione dei rapporti esistenti nel senso dell’estensione di diritti e opportunità materiali alla maggior parte possibile degli uomini (§ 1). In secondo luogo, analizzando la posizione di Georges Sorel e quella di Walter Benjamin, metteremo a fuoco ciò che definiamo come «interpretazione naturalista» della violenza, interpretazione che è sottesa alla considerazione della violenza come passibile, in quanto dato di fatto, di valutazione e che costituisce il presupposto del rifiuto della violenza in quanto tale (§ 2). Delineeremo infine, sulla scorta delle indicazioni di Karl Marx, un’interpretazione legittimativa del fenomeno della violenza, che le assegna il ruolo di variabile funzionale di prassi sociali storicamente determinate e la considera come valutabile in ordine all’identità che attraverso esse si configura e si legittima (§ 3).I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.