Il contributo intende verificare se anche nel diritto italiano il contraente deluso a seguito del verificarsi di un inadempimento grave (art. 1455 c.c.) possa liberarsi dal rapporto alterato indirizzando al debitore un atto di recesso, o manifestando altrimenti la volontà di sciogliere il vincolo. Ci si chiede, in altri termini, se al di fuori delle ipotesi in cui il contratto si risolve « di diritto » la vittima dell’inadempimento sia legittimata a sciogliere il rapporto per atto unilaterale o se, invece, per conseguire il medesimo risultato sia tenuta a proporre domanda giudiziale. La questione è specifica, ma la sua soluzione implica una riflessione di carattere generale sul ruolo del processo nel regime della risoluzione per inadempimento. Benché non manchino opinioni favorevoli alla legittimazione a recedere, la dottrina prevalente è tuttora orientata in senso contrario. Un argomento a sostegno di tale posizione si desume, in primo luogo, dal tenore letterale dell’art. 1453 c.c., che rappresenta la risoluzione quale oggetto di una domanda giudiziale: su questa base si conclude senz’altro che dove il contratto non si risolve « di diritto » il soggetto interessato a svincolarsi dal rapporto alterato è tenuto ad agire in giudizio. Ne consegue che, una volta verificatosi un inadempimento grave, la parte fedele è tenuta a proporre domanda giudiziale anche se vuole semplicemente liberarsi dall’obbligazione assunta concludendo il contratto e non ha interesse ad ottenere la condanna della controparte a restituire la prestazione eseguita o a risarcire il danno. In questa prospettiva, come è evidente, non si distingue la situazione in cui il contraente deluso voglia semplicemente ottenere la propria liberazione dal vincolo da quella in cui abbia interesse a conseguire la condanna della controparte alla restituzione della prestazione e al risarcimento del danno: in ogni caso, egli sarebbe tenuto a proporre domanda di risoluzione. Proprio su questo aspetto si fonda la soluzione che viene proposto nel contributo: essa comporta un ridimensionamento selettivo del ruolo del processo nell’economia del rimedio risolutorio. La vittima dell’inadempimento è legittimata a recedere — o a manifestare altrimenti la volontà di risolvere il contratto con effetto immediato — se tutto ciò che intende ottenere è la liberazione dal vincolo; è invece tenuta a proporre domanda giudiziale, in assenza di un accordo con la controparte, quando vuole conseguire la sua condanna alla restituzione della prestazione eseguita o al risarcimento del danno derivante dallo scioglimento del contratto.

Risoluzione per inadempimento e ricorso al processo

DELLACASA, MATTEO
2015-01-01

Abstract

Il contributo intende verificare se anche nel diritto italiano il contraente deluso a seguito del verificarsi di un inadempimento grave (art. 1455 c.c.) possa liberarsi dal rapporto alterato indirizzando al debitore un atto di recesso, o manifestando altrimenti la volontà di sciogliere il vincolo. Ci si chiede, in altri termini, se al di fuori delle ipotesi in cui il contratto si risolve « di diritto » la vittima dell’inadempimento sia legittimata a sciogliere il rapporto per atto unilaterale o se, invece, per conseguire il medesimo risultato sia tenuta a proporre domanda giudiziale. La questione è specifica, ma la sua soluzione implica una riflessione di carattere generale sul ruolo del processo nel regime della risoluzione per inadempimento. Benché non manchino opinioni favorevoli alla legittimazione a recedere, la dottrina prevalente è tuttora orientata in senso contrario. Un argomento a sostegno di tale posizione si desume, in primo luogo, dal tenore letterale dell’art. 1453 c.c., che rappresenta la risoluzione quale oggetto di una domanda giudiziale: su questa base si conclude senz’altro che dove il contratto non si risolve « di diritto » il soggetto interessato a svincolarsi dal rapporto alterato è tenuto ad agire in giudizio. Ne consegue che, una volta verificatosi un inadempimento grave, la parte fedele è tenuta a proporre domanda giudiziale anche se vuole semplicemente liberarsi dall’obbligazione assunta concludendo il contratto e non ha interesse ad ottenere la condanna della controparte a restituire la prestazione eseguita o a risarcire il danno. In questa prospettiva, come è evidente, non si distingue la situazione in cui il contraente deluso voglia semplicemente ottenere la propria liberazione dal vincolo da quella in cui abbia interesse a conseguire la condanna della controparte alla restituzione della prestazione e al risarcimento del danno: in ogni caso, egli sarebbe tenuto a proporre domanda di risoluzione. Proprio su questo aspetto si fonda la soluzione che viene proposto nel contributo: essa comporta un ridimensionamento selettivo del ruolo del processo nell’economia del rimedio risolutorio. La vittima dell’inadempimento è legittimata a recedere — o a manifestare altrimenti la volontà di risolvere il contratto con effetto immediato — se tutto ciò che intende ottenere è la liberazione dal vincolo; è invece tenuta a proporre domanda giudiziale, in assenza di un accordo con la controparte, quando vuole conseguire la sua condanna alla restituzione della prestazione eseguita o al risarcimento del danno derivante dallo scioglimento del contratto.
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