Nella Dichiarazione di New York del settembre 2016 su rifugiati e migranti, nella stessa sessione in cui le Nazioni Unite hanno lanciato l’ambizioso progetto del Global Migration Compact per il 2018, 193 Stati membri si sono obbligati a potenziare in modo coordinato insieme alla società civile e al settore privato (incluso quello di ispirazione religiosa) vie legali di accesso per i rifugiati. Tra le buone prassi registrate in tal senso in Italia meritano attenzione i corridoi umanitari aperti nella prima fase dal Libano, quindi anche dall’Etiopia, grazie a tre protocolli di intesa ‘ibridi’ stipulati, rispettivamente, il 15 dicembre 2015 (grazie al quale sono stati già accolti oltre 700 profughi siriani) e il 12 gennaio 2017 tra i Ministeri degli Affari Esteri e dell’Interno, da un lato, e la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, le Chiese valdesi e metodiste, la Comunità di Sant’Egidio, dall’altro, cui si è aggiunta da ultimo la CEI che, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, ha siglato il secondo protocollo. Il 7 novembre 2017 le parti del primo accordo hanno rinnovato il loro impegno per altri 1.000 profughi. Tali intese sembrano dimostrare la fattibilità di un modello di protezione in cui attori non statali si fanno materialmente carico di trasferire in Italia potenziali beneficiari di protezione internazionale in modo legale e sicuro dallo Stato terzo ove si trovino e di accoglierli in una fase iniziale garantendo loro effettivo sostegno nel processo di «inserimento socioculturale per un congruo periodo di tempo», evitando pericolosi “viaggi della speranza” via mare. Tra i beneficiari, selezionati dalle ONG, rientrano non solo quanti prima facie sono rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 (e del Protocollo attuativo del 1967), ma anche coloro per cui «esista il fondato motivo che, nel caso di rientro nel paese di origine, possano subire un danno grave» a causa di una situazione di conflitto armato, violenza endemica o violazione sistematica dei diritti umani e/o che già possano usufruire in Italia di una «disponibilità all’accoglienza da parte di singoli, chiese o associazioni» o abbiano «reti familiari o sociali» stabili a cui appoggiarsi e abbiano dichiarato di volersi stabilire in Italia. Si tratta di comprendere quanto questa via d’ingresso legale di natura eccezionale possa diventare prassi diffusa in altri Stati europei e se, a tale scopo, debba essere diversamente modulata o modificata. In particolare, a seguito della sentenza X e X c. Stato Belga, decisa dalla Corte UE il 7 marzo 2017 (in causa C-638/16 PPU), non sembra possa mantenersi lo stesso fondamento giuridico che entrambe richiamano, l’art. 25 codice visti (regolamento n. 810/2009), che riconosce agli Stati Membri la facoltà di rilasciare discrezionalmente un visto per motivi umanitari o per onorare i propri obblighi internazionali con una “validità territoriale limitata” (VTL); mentre, dall’altro, chiariscono che lo scopo è l’arrivo in Italia di migranti in condizioni di vulnerabilità, che riceveranno assistenza legale al fine di ottenere protezione internazionale e «favorire la stabilizzazione in Italia». Senonché, nella sentenza citata, viene esclusa l’applicabilità dell’art. 25 visa code (e del diritto UE) a un caso che potenzialmente ricadrebbe nelle intese: si è statuito che non può essere accettata una domanda di visto VTL presentata alla rappresentanza consolare belga in Libano da una famiglia di profughi siriani (inclusi minori in tenera età), cristiani ortodossi sottoposti a persecuzione ad Aleppo, quando dalla domanda si tragga la loro intenzione di richiedere protezione internazionale una volta arrivati in Belgio (ove siano attesi da una rete assistenziale), ciò sottintendendo la volontà di permanere sul territorio ben oltre i 90 giorni (su 180) prescritti dal codice visti, con la conseguente inapplicabilità della Carta dei diritti fondamentali. Rimettere agli Stati piena discrezionalità non sembra però implicare il divieto di accordi con sponsor privati per l’apertura di corridoi umanitari, anche se, almeno formalmente, andranno ripensati rispetto alla base giuridica applicabile, rintracciabile nel diritto internazionale sia generale (principio di non refoulement, divieto di tortura) sia pattizio (in primis CEDU, Convenzione di NY sui diritti del fanciullo), oltre che forse nella sostanza, rispetto ad altri punti controversi, come il potere di scelta nella selezione dei beneficiari rimesso alle ONG e l’individuazione di paesi «sicuri» ove procedere alla valutazione.

I “corridoi umanitari” aperti grazie a sponsor privati: quale base giuridica in Europa?

ricci carola
2018-01-01

Abstract

Nella Dichiarazione di New York del settembre 2016 su rifugiati e migranti, nella stessa sessione in cui le Nazioni Unite hanno lanciato l’ambizioso progetto del Global Migration Compact per il 2018, 193 Stati membri si sono obbligati a potenziare in modo coordinato insieme alla società civile e al settore privato (incluso quello di ispirazione religiosa) vie legali di accesso per i rifugiati. Tra le buone prassi registrate in tal senso in Italia meritano attenzione i corridoi umanitari aperti nella prima fase dal Libano, quindi anche dall’Etiopia, grazie a tre protocolli di intesa ‘ibridi’ stipulati, rispettivamente, il 15 dicembre 2015 (grazie al quale sono stati già accolti oltre 700 profughi siriani) e il 12 gennaio 2017 tra i Ministeri degli Affari Esteri e dell’Interno, da un lato, e la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, le Chiese valdesi e metodiste, la Comunità di Sant’Egidio, dall’altro, cui si è aggiunta da ultimo la CEI che, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, ha siglato il secondo protocollo. Il 7 novembre 2017 le parti del primo accordo hanno rinnovato il loro impegno per altri 1.000 profughi. Tali intese sembrano dimostrare la fattibilità di un modello di protezione in cui attori non statali si fanno materialmente carico di trasferire in Italia potenziali beneficiari di protezione internazionale in modo legale e sicuro dallo Stato terzo ove si trovino e di accoglierli in una fase iniziale garantendo loro effettivo sostegno nel processo di «inserimento socioculturale per un congruo periodo di tempo», evitando pericolosi “viaggi della speranza” via mare. Tra i beneficiari, selezionati dalle ONG, rientrano non solo quanti prima facie sono rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 (e del Protocollo attuativo del 1967), ma anche coloro per cui «esista il fondato motivo che, nel caso di rientro nel paese di origine, possano subire un danno grave» a causa di una situazione di conflitto armato, violenza endemica o violazione sistematica dei diritti umani e/o che già possano usufruire in Italia di una «disponibilità all’accoglienza da parte di singoli, chiese o associazioni» o abbiano «reti familiari o sociali» stabili a cui appoggiarsi e abbiano dichiarato di volersi stabilire in Italia. Si tratta di comprendere quanto questa via d’ingresso legale di natura eccezionale possa diventare prassi diffusa in altri Stati europei e se, a tale scopo, debba essere diversamente modulata o modificata. In particolare, a seguito della sentenza X e X c. Stato Belga, decisa dalla Corte UE il 7 marzo 2017 (in causa C-638/16 PPU), non sembra possa mantenersi lo stesso fondamento giuridico che entrambe richiamano, l’art. 25 codice visti (regolamento n. 810/2009), che riconosce agli Stati Membri la facoltà di rilasciare discrezionalmente un visto per motivi umanitari o per onorare i propri obblighi internazionali con una “validità territoriale limitata” (VTL); mentre, dall’altro, chiariscono che lo scopo è l’arrivo in Italia di migranti in condizioni di vulnerabilità, che riceveranno assistenza legale al fine di ottenere protezione internazionale e «favorire la stabilizzazione in Italia». Senonché, nella sentenza citata, viene esclusa l’applicabilità dell’art. 25 visa code (e del diritto UE) a un caso che potenzialmente ricadrebbe nelle intese: si è statuito che non può essere accettata una domanda di visto VTL presentata alla rappresentanza consolare belga in Libano da una famiglia di profughi siriani (inclusi minori in tenera età), cristiani ortodossi sottoposti a persecuzione ad Aleppo, quando dalla domanda si tragga la loro intenzione di richiedere protezione internazionale una volta arrivati in Belgio (ove siano attesi da una rete assistenziale), ciò sottintendendo la volontà di permanere sul territorio ben oltre i 90 giorni (su 180) prescritti dal codice visti, con la conseguente inapplicabilità della Carta dei diritti fondamentali. Rimettere agli Stati piena discrezionalità non sembra però implicare il divieto di accordi con sponsor privati per l’apertura di corridoi umanitari, anche se, almeno formalmente, andranno ripensati rispetto alla base giuridica applicabile, rintracciabile nel diritto internazionale sia generale (principio di non refoulement, divieto di tortura) sia pattizio (in primis CEDU, Convenzione di NY sui diritti del fanciullo), oltre che forse nella sostanza, rispetto ad altri punti controversi, come il potere di scelta nella selezione dei beneficiari rimesso alle ONG e l’individuazione di paesi «sicuri» ove procedere alla valutazione.
2018
978-88-9391-391-1
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/1208866
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