Del Tannhäuser è invalsa una lettura di taglio simbolista, che interpreta la vicenda come una lotta interiore fra «la carne e lo spirito», fra «Satana e Dio» (Baudelaire, 1861). Il saggio pone invece in evidenza la matrice sociologica dell’opera e i suoi referenti storici, sulla scorta degli originari paratesti veicolati dal compositore. Nella prima edizione del libretto (1845), Wagner spiegava come la dea germanica Holda, «dolce e misericordiosa», fosse stata costretta all’esilio, a seguito dell’egemonia del cristianesimo; dimenticata da tutti, prese il nome di Venere e per sopravvivere allo stigma si fece padrona (in realtà schiava) di un paradiso artificiale. Tannhäuser diventa così una riflessione a tutto tondo sui rapporti di potere, sulla dialettica tra singolo e comunità, sul confine che separa le vittime dai carnefici. L’analisi della drammaturgia, connessa alle tesi degli scritti zurighesi, fa emergere il senso sociopolitico della redenzione, che Wagner declina con accenti diversi: in origine, la morte d’amore era concepita come “salus extra ecclesiam”, fuga solitaria dall’oppressione della legge; nel nuovo finale, scritto nel 1847, l’eroe morente si ritrova circondato dai cavalieri e dal langravio, in una scena di massa simile a un rito sacrificale, che riafferma l’ordine costituito. Tali dinamiche vengono poi indagate nel Tristan e nel Parsifal, al fine di mostrare l’evoluzione del pensiero wagneriano e l’ambiguità dei suoi approdi. Se in Isotta rivivono le doti primaverili della dea Holda e l’utopia di una sintesi fra le scissioni dell’umano, nel dramma sacro non c’è più spazio per donne redentrici: la salvezza è tutta al maschile e il mistico canto del Graal rischia di apparire come un esorcismo, emblema di un potere immutabile ed escludente. La comunità degli eletti vivrà in eterno, forte dei propri riti, mentre Kundry non riesce a reggere lo sguardo e soccombe. Da che parte sta la ragione? Chi “vince” e chi “perde” nello schema del racconto? Un’analisi comparata del finale del Parsifal, nei suoi nessi intertestuali con i precedenti drammi, offre la chiave di una possibile esegesi.
«Sei er gefehmt, sei er gebannt!». Il destino degli oppressi e dei redenti, da Tannhäuser a Parsifal
Francesco Fontanelli
2022-01-01
Abstract
Del Tannhäuser è invalsa una lettura di taglio simbolista, che interpreta la vicenda come una lotta interiore fra «la carne e lo spirito», fra «Satana e Dio» (Baudelaire, 1861). Il saggio pone invece in evidenza la matrice sociologica dell’opera e i suoi referenti storici, sulla scorta degli originari paratesti veicolati dal compositore. Nella prima edizione del libretto (1845), Wagner spiegava come la dea germanica Holda, «dolce e misericordiosa», fosse stata costretta all’esilio, a seguito dell’egemonia del cristianesimo; dimenticata da tutti, prese il nome di Venere e per sopravvivere allo stigma si fece padrona (in realtà schiava) di un paradiso artificiale. Tannhäuser diventa così una riflessione a tutto tondo sui rapporti di potere, sulla dialettica tra singolo e comunità, sul confine che separa le vittime dai carnefici. L’analisi della drammaturgia, connessa alle tesi degli scritti zurighesi, fa emergere il senso sociopolitico della redenzione, che Wagner declina con accenti diversi: in origine, la morte d’amore era concepita come “salus extra ecclesiam”, fuga solitaria dall’oppressione della legge; nel nuovo finale, scritto nel 1847, l’eroe morente si ritrova circondato dai cavalieri e dal langravio, in una scena di massa simile a un rito sacrificale, che riafferma l’ordine costituito. Tali dinamiche vengono poi indagate nel Tristan e nel Parsifal, al fine di mostrare l’evoluzione del pensiero wagneriano e l’ambiguità dei suoi approdi. Se in Isotta rivivono le doti primaverili della dea Holda e l’utopia di una sintesi fra le scissioni dell’umano, nel dramma sacro non c’è più spazio per donne redentrici: la salvezza è tutta al maschile e il mistico canto del Graal rischia di apparire come un esorcismo, emblema di un potere immutabile ed escludente. La comunità degli eletti vivrà in eterno, forte dei propri riti, mentre Kundry non riesce a reggere lo sguardo e soccombe. Da che parte sta la ragione? Chi “vince” e chi “perde” nello schema del racconto? Un’analisi comparata del finale del Parsifal, nei suoi nessi intertestuali con i precedenti drammi, offre la chiave di una possibile esegesi.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.