Attingendo alla tradizione francese delle 'pièces à sauvetage', Beethoven rappresenta nel "Fidelio" l’orrore della prigionia e la gioia della ritrovata libertà. Le valenze politico-rivoluzionarie dell’opera sono ben note e si iscrivono nel programma del cosiddetto stile eroico (1803-08): il lieto fine come superamento del negativo, la trasfigurazione del dolore, l’utopia di una società più giusta, che sconfigge i tiranni. Nell’azione si cela altresì un sottotesto simbolico, espresso dalla musica e dagli apparati scenici, che ruota attorno all’antinomia ‘buio/luce’. La prigione non è solo un’ingiustizia, una mera contingenza storica, ma è intesa come una prova divina, attraverso cui conquistare un nuovo sguardo sulle cose, la capacità di vedere oltre le apparenze. Leonora, che entra nell’antro oscuro per salvare il marito, è la donna dentro cui «riluce un’iride»; l’evasione dal carcere diventa sinonimo di autocoscienza, «l’uscita dell’essere umano dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole» (secondo la celebre definizione dell’illuminismo data da Kant). L’articolo affronta questi temi, riconnettendoli al mito della caverna di Platone, che offre un archetipo drammaturgico, fondato sull’itinerario in salita, sulla progressiva riscoperta della luce e del cielo stellato. Un analogo sfondo di problemi sarà poi rintracciato in un’opera cruciale del Novecento italiano, che pone risposte per certi versi opposte: "Il prigioniero" di Luigi Dallapiccola (1943-48), tratto dal racconto crudele "La torture par l’espérance" di Auguste de Villiers de l’Isle-Adam. Le carceri dell’inquisizione spagnola diventano qui un labirinto senza via di fuga, nel quale ci si muove a tentoni, in balia delle ombre. La luce che trapela dall’esterno coincide con le fiamme del rogo, rivelandosi un terribile inganno. Dallapiccola realizzava così un ‘anti-Fidelio’, per denunciare la barbarie del nazifascismo, ma non poneva fine alla ricerca di senso e alla speranza di un nuovo inizio. Si mostrerà, infatti, come l’opera faccia parte di una parabola più ampia, che prende avvio con la preghiera dal carcere di Maria Stuarda, nei "Canti di prigionia" (1938-41), e si conclude con un passo di Sant’Agostino, nei "Canti di liberazione" (1951-55), laddove viene evocato il bagliore della scintilla che libera dalla cecità («Coruscasti, splenduisti, et fugasti caecitatem meam»).
Ex tenebris ad lucem. Variazioni sul mito della caverna, da "Fidelio" al "Prigioniero"
Francesco Fontanelli
2024-01-01
Abstract
Attingendo alla tradizione francese delle 'pièces à sauvetage', Beethoven rappresenta nel "Fidelio" l’orrore della prigionia e la gioia della ritrovata libertà. Le valenze politico-rivoluzionarie dell’opera sono ben note e si iscrivono nel programma del cosiddetto stile eroico (1803-08): il lieto fine come superamento del negativo, la trasfigurazione del dolore, l’utopia di una società più giusta, che sconfigge i tiranni. Nell’azione si cela altresì un sottotesto simbolico, espresso dalla musica e dagli apparati scenici, che ruota attorno all’antinomia ‘buio/luce’. La prigione non è solo un’ingiustizia, una mera contingenza storica, ma è intesa come una prova divina, attraverso cui conquistare un nuovo sguardo sulle cose, la capacità di vedere oltre le apparenze. Leonora, che entra nell’antro oscuro per salvare il marito, è la donna dentro cui «riluce un’iride»; l’evasione dal carcere diventa sinonimo di autocoscienza, «l’uscita dell’essere umano dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole» (secondo la celebre definizione dell’illuminismo data da Kant). L’articolo affronta questi temi, riconnettendoli al mito della caverna di Platone, che offre un archetipo drammaturgico, fondato sull’itinerario in salita, sulla progressiva riscoperta della luce e del cielo stellato. Un analogo sfondo di problemi sarà poi rintracciato in un’opera cruciale del Novecento italiano, che pone risposte per certi versi opposte: "Il prigioniero" di Luigi Dallapiccola (1943-48), tratto dal racconto crudele "La torture par l’espérance" di Auguste de Villiers de l’Isle-Adam. Le carceri dell’inquisizione spagnola diventano qui un labirinto senza via di fuga, nel quale ci si muove a tentoni, in balia delle ombre. La luce che trapela dall’esterno coincide con le fiamme del rogo, rivelandosi un terribile inganno. Dallapiccola realizzava così un ‘anti-Fidelio’, per denunciare la barbarie del nazifascismo, ma non poneva fine alla ricerca di senso e alla speranza di un nuovo inizio. Si mostrerà, infatti, come l’opera faccia parte di una parabola più ampia, che prende avvio con la preghiera dal carcere di Maria Stuarda, nei "Canti di prigionia" (1938-41), e si conclude con un passo di Sant’Agostino, nei "Canti di liberazione" (1951-55), laddove viene evocato il bagliore della scintilla che libera dalla cecità («Coruscasti, splenduisti, et fugasti caecitatem meam»).I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.