Il libro rappresenta la prima autentica biografia di Lucio Fontana, in cui vita e arte, indissolubili, sono indagate con acribia scientifica, attenzione filologica ai dati storici e linearità narrativa. L’immaginazione di un’ “altra” realtà, artistica, sociale e culturale, è una motivazione alla base delle scelte di Fontana e l’ “oltre”, ha molteplici significati: è l’incognita o la dimensione dell’utopia, percorribile grazie a un atto di libertà. Nell’adolescente fu la spinta a immaginare un ruolo differente da quello dello studente di buona famiglia per arruolarsi volontario, ragazzo del ’99, nella Prima Guerra Mondiale. Forse solo per dimostrare al padre di avere coraggio ed eroismo, fede in un ideale. Ma è la stessa spinta che negli anni Venti lo ha motivato, per reazione alla vita militare, a lasciare temporaneamente l’Italia per tornare in Argentina, dove era nato, immaginando un futuro diverso: una fuga dalla famiglia paterna e dalle convenzioni sociali per decomprimere, come gaucho nella Pampa, le atrocità a cui aveva dovuto assistere in Italia. L’ “oltre” si configurò come vita allo stato brado a contatto con l’assoluto della Pampa e con gli elementi. Rompere gli schemi di una convenzione è sempre stato il mezzo di cui si è servito per raggiungere uno stato di libertà, non per puro gusto di contrapposizione nei confronti dei limiti imposti, ma come una strada da percorre per necessità: quando ha scoperto la sua vena creativa e immaginato il suo ruolo di artista non lo ha fatto per compiacere ai desideri del padre, ma per seguire l’ istinto che lo portava a immaginare una “possibilità” differente rispetto allo status quo. Come è accaduto ai grandi esploratori di ogni tempo, l’incognita lo ha sempre attratto più delle certezze acquisite perché la sua intuizione era il motivo primo di ogni passo. Nella Milano degli anni Trenta l’ “oltre” fu sia un luogo primevo del tutto immaginato, fuori dalla storia, sia una espressione d’arte che allora egli intuì come possibilità ma che non riusciva ancora bene a mettere a fuoco. Un linguaggio che non avesse più a che vedere con la scultura intesa come celebrazione del volume e della gravità, né con la pittura, ma che sintetizzasse scultura e pittura, o prevedesse la sospensione di forme nell’aria, la luce e il movimento, fedele all’utopia dell’avanguardia. Quel sogno, inizialmente sondato nella scultura astratta, iniziò a profilarsi concretamente solo dopo la presa di coscienza di un “altro” tempo e di un “altro” spazio nel cosmo, durante il Secondo Conflitto mondiale e in Argentina, dove era di nuovo riparato. Qui, anche sulla base della divulgazione popolare delle teorie scientifiche di Einstein, prese a immaginare un’arte del futuro che avrebbe dovuto esprimere lo “spazio-tempo”. Non sapeva ancora in che modo, ma era sicuro che lui stesso avrebbe potuto portare l’arte su quella strada. Il ritorno definitivo a Milano nel 1947 fu un’altra incognita della sua vita: a Buenos Aires, nonostante avesse un agognato “posto fisso”, due cattedre di insegnamento, e fosse un artista piuttosto riconosciuto, sentiva che non avrebbe potuto avere la libertà di sviluppare i suoi progetti. Anche in questo caso fu l’intuizione a guidarlo. Gli amici milanesi si ricordavano dei suoi discorsi un po’ sconclusionati, al ritorno in Italia, di un’arte dello spazio-tempo che non sapeva ancora come si sarebbe concretizzata, parlava allora di proiezioni di forme colorate nel cielo. Da una prospettiva realista, dominante nella Milano che curava le ferite della guerra, i suoi discorsi espressi in una lingua a metà tra il dialetto milanese, lo spagnolo e l’italiano, dovettero sembrare provocatori. Rischiò la rissa alla Biennale del 1948 quando distribuì i volantini dei primi manifesti “spaziali”. Così quando finalmente, col supporto di Carlo Cardazzo, poté dar vita al suo Ambiente spaziale e poi, quasi come una naturale conseguenza, passò ai primi concetti spaziali, i cosiddetti “buchi”, l’amico Gabriele Mucchi ironicamente parlò dell’affermazione in arte della “banda del Buco”. Ma per Fontana era un traguardo raggiunto, dopo ventotto anni di ricerche, e proseguì dritto per la sua strada, non lasciandosi influenzare dai giudizi altrui. L’ “oltre” gli era apparso, allora, l’infinito del cosmo, un’incognita che prese lentamente il senso di una metafora con una moltitudine di significati: era la necessità di non accontentarsi dell’esistente e del visibile, nella vita come nell’arte, era l’indicazione a superare la centralità dell’uomo, mitizzata dalla storia; era, infine, l’allusione immaginaria a una condizione esistenziale futura in cui l’umanità si sarebbe gradualmente allontanata non solo dalla gravità, ma dalla fisicità materiale in senso lato. Il “concetto spaziale”, al di là della pittura e della scultura, evidenziava l’apparire di quell’ “oltre” e gradualmente assunse persino la presunzione di rendere lo stato d’animo, immaginato, dell’astronauta che un domani, ne era sicuro, avrebbe navigato nel cosmo. Quell’”oltre” negli anni Sessanta, con le conquiste dell’era spaziale e i primi lanci degli astronauti, divenne realtà, e anche l’utopia estetica si concretizzò poiché, dopo Yves Klein e Manzoni, con il Gruppo Zero e l’arte cinetica, l’arte contemporanea raggiunse gli esiti che Fontana aveva sempre precorso. Nonostante tutto, la possibilità di un “oltre” lo motivò fino alla fine dei suoi giorni: ancora nel 1968, l’anno della sua dipartita, era impegnato nell’ennesima sfida, a confrontarsi con le ipotesi del Minimalismo americano, con l’uso del neon in senso ambientale ( di cui lui stesso, come è noto era stato un pioniere) fedele a un differente concetto di anonimato della forma e di spazio attivo, di tipo “emotivo”, non freddo, non privo di sensualità nella monocromia; anche gli ultimi ambienti da lui progettati esprimono una immersione totalizzante, nel senso dello shock luminoso, diversamente da altre effimere atmosfere contemplative.

Lucio Fontana. La possibilità di un oltre

Paolo Campiglio
2025-01-01

Abstract

Il libro rappresenta la prima autentica biografia di Lucio Fontana, in cui vita e arte, indissolubili, sono indagate con acribia scientifica, attenzione filologica ai dati storici e linearità narrativa. L’immaginazione di un’ “altra” realtà, artistica, sociale e culturale, è una motivazione alla base delle scelte di Fontana e l’ “oltre”, ha molteplici significati: è l’incognita o la dimensione dell’utopia, percorribile grazie a un atto di libertà. Nell’adolescente fu la spinta a immaginare un ruolo differente da quello dello studente di buona famiglia per arruolarsi volontario, ragazzo del ’99, nella Prima Guerra Mondiale. Forse solo per dimostrare al padre di avere coraggio ed eroismo, fede in un ideale. Ma è la stessa spinta che negli anni Venti lo ha motivato, per reazione alla vita militare, a lasciare temporaneamente l’Italia per tornare in Argentina, dove era nato, immaginando un futuro diverso: una fuga dalla famiglia paterna e dalle convenzioni sociali per decomprimere, come gaucho nella Pampa, le atrocità a cui aveva dovuto assistere in Italia. L’ “oltre” si configurò come vita allo stato brado a contatto con l’assoluto della Pampa e con gli elementi. Rompere gli schemi di una convenzione è sempre stato il mezzo di cui si è servito per raggiungere uno stato di libertà, non per puro gusto di contrapposizione nei confronti dei limiti imposti, ma come una strada da percorre per necessità: quando ha scoperto la sua vena creativa e immaginato il suo ruolo di artista non lo ha fatto per compiacere ai desideri del padre, ma per seguire l’ istinto che lo portava a immaginare una “possibilità” differente rispetto allo status quo. Come è accaduto ai grandi esploratori di ogni tempo, l’incognita lo ha sempre attratto più delle certezze acquisite perché la sua intuizione era il motivo primo di ogni passo. Nella Milano degli anni Trenta l’ “oltre” fu sia un luogo primevo del tutto immaginato, fuori dalla storia, sia una espressione d’arte che allora egli intuì come possibilità ma che non riusciva ancora bene a mettere a fuoco. Un linguaggio che non avesse più a che vedere con la scultura intesa come celebrazione del volume e della gravità, né con la pittura, ma che sintetizzasse scultura e pittura, o prevedesse la sospensione di forme nell’aria, la luce e il movimento, fedele all’utopia dell’avanguardia. Quel sogno, inizialmente sondato nella scultura astratta, iniziò a profilarsi concretamente solo dopo la presa di coscienza di un “altro” tempo e di un “altro” spazio nel cosmo, durante il Secondo Conflitto mondiale e in Argentina, dove era di nuovo riparato. Qui, anche sulla base della divulgazione popolare delle teorie scientifiche di Einstein, prese a immaginare un’arte del futuro che avrebbe dovuto esprimere lo “spazio-tempo”. Non sapeva ancora in che modo, ma era sicuro che lui stesso avrebbe potuto portare l’arte su quella strada. Il ritorno definitivo a Milano nel 1947 fu un’altra incognita della sua vita: a Buenos Aires, nonostante avesse un agognato “posto fisso”, due cattedre di insegnamento, e fosse un artista piuttosto riconosciuto, sentiva che non avrebbe potuto avere la libertà di sviluppare i suoi progetti. Anche in questo caso fu l’intuizione a guidarlo. Gli amici milanesi si ricordavano dei suoi discorsi un po’ sconclusionati, al ritorno in Italia, di un’arte dello spazio-tempo che non sapeva ancora come si sarebbe concretizzata, parlava allora di proiezioni di forme colorate nel cielo. Da una prospettiva realista, dominante nella Milano che curava le ferite della guerra, i suoi discorsi espressi in una lingua a metà tra il dialetto milanese, lo spagnolo e l’italiano, dovettero sembrare provocatori. Rischiò la rissa alla Biennale del 1948 quando distribuì i volantini dei primi manifesti “spaziali”. Così quando finalmente, col supporto di Carlo Cardazzo, poté dar vita al suo Ambiente spaziale e poi, quasi come una naturale conseguenza, passò ai primi concetti spaziali, i cosiddetti “buchi”, l’amico Gabriele Mucchi ironicamente parlò dell’affermazione in arte della “banda del Buco”. Ma per Fontana era un traguardo raggiunto, dopo ventotto anni di ricerche, e proseguì dritto per la sua strada, non lasciandosi influenzare dai giudizi altrui. L’ “oltre” gli era apparso, allora, l’infinito del cosmo, un’incognita che prese lentamente il senso di una metafora con una moltitudine di significati: era la necessità di non accontentarsi dell’esistente e del visibile, nella vita come nell’arte, era l’indicazione a superare la centralità dell’uomo, mitizzata dalla storia; era, infine, l’allusione immaginaria a una condizione esistenziale futura in cui l’umanità si sarebbe gradualmente allontanata non solo dalla gravità, ma dalla fisicità materiale in senso lato. Il “concetto spaziale”, al di là della pittura e della scultura, evidenziava l’apparire di quell’ “oltre” e gradualmente assunse persino la presunzione di rendere lo stato d’animo, immaginato, dell’astronauta che un domani, ne era sicuro, avrebbe navigato nel cosmo. Quell’”oltre” negli anni Sessanta, con le conquiste dell’era spaziale e i primi lanci degli astronauti, divenne realtà, e anche l’utopia estetica si concretizzò poiché, dopo Yves Klein e Manzoni, con il Gruppo Zero e l’arte cinetica, l’arte contemporanea raggiunse gli esiti che Fontana aveva sempre precorso. Nonostante tutto, la possibilità di un “oltre” lo motivò fino alla fine dei suoi giorni: ancora nel 1968, l’anno della sua dipartita, era impegnato nell’ennesima sfida, a confrontarsi con le ipotesi del Minimalismo americano, con l’uso del neon in senso ambientale ( di cui lui stesso, come è noto era stato un pioniere) fedele a un differente concetto di anonimato della forma e di spazio attivo, di tipo “emotivo”, non freddo, non privo di sensualità nella monocromia; anche gli ultimi ambienti da lui progettati esprimono una immersione totalizzante, nel senso dello shock luminoso, diversamente da altre effimere atmosfere contemplative.
2025
Biografie
9788860101860
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/1536303
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