Questo volume, in base a una rassegna delle principali fonti e delle più importanti interpretazioni storiografiche, ripercorre la storia della civitas Romana e della sua diffusione nei secoli I – III d.C. Particolare rilievo è attribuito al tema della creazione di una cittadinanza imperiale comune e a quello – peraltro connesso al primo – del destino dei diritti locali dopo la constitutio Antoniniana. Nel I capitolo (e, in specie nel § 2 «Libertà e cittadinanza») assume particolare importanza lo studio dell’elaborazione – di Tertulliano e di Lattanzio – della nozione di libertà religiosa come libertà della coscienza individuale. Nella visione di Tertulliano, recuperata, poi, da Lattanzio e dall’estensore del cosiddetto Editto di Milano, la libertà religiosa non lede i diritti di terze persone e quindi è conforme a uno dei praecepta iuris: alterum non laedere. Si può constatare, di conseguenza, la capacità di elaborare - soprattutto sul piano teorico (ma con sporadiche ricadute anche sul piano dell’elaborazione normativa, come attestano le tracce del cosiddetto Editto di Milano) – ‘diritti di libertà’ alla luce dei principii del ‘giusnaturalismo stoico’. Nel II capitolo si pone in luce come la nozione di civitas in quanto comunità di diritto, ovvero in quanto statuto comune a tutti i cittadini – compiutamente definita da Cicerone – sviluppi premesse già implicite nei filosofi stoici di III e di II secolo a.C.: il che equivale a dire che nelle filosofie d’età ellenistica proprio come in Cicerone, si definisce una nozione di politeía (/civitas) senza dubbio già molto distante da quella di Aristotele, per il quale la cittadinanza era, prima d’ogni altra cosa, un quadro di partecipazione in cui ciascuno cittadino doveva avere, allo stesso tempo, le qualità morali e intellettuali per comandare ed essere comandato. Nel § 2 di questo capitolo si affrontano i più importanti problemi storiografici sollevati dallo studio delle guarentigie attribuite ai cives Romani di età imperiale e dall’emergere della dicotomia tra honestiores e humiliores. Nel III capitolo si prendono in esame le principali vie di accesso alla civitas: nascita di un vulgo conceptus da madre romana, concepimento in iustae nuptiae, manomissione, reclutamento nell’esercito, concessioni viritane. Speciale rilievo è attribuito allo studio della Tabula Banasitana e degli elementi che emergono, alla luce dell’epistolario tra Traiano e Plinio, dalla vicenda dello iatraliptes Harpocras. All’Egitto e alla peculiare condizione dei suoi abitanti sono dedicati infine alcuni specifici approfondimenti. Nel IV capitolo, ridiscusso il problema della doppia cittadinanza, in base ai dati forniti dalla cosiddetta epistola di Marco Aurelio agli Ateniesi, nel § 2 si prende in esame l’effettivo rilievo della nozione Roma communis patria. Il Cap. V, dedicato all’esame delle testimonianze attinenti alla constitutio Antoniniana, si sofferma, in particolare, sulla testimonianza delle Storie di Cassio Dione e su di un frammento del commentario edittale di Ulpiano. A tal riguardo si è ridiscusso nel dettaglio il problema della collocazione palingenetica di D. 1.5.17 (Ulp. 22 ad edictum). Il capitolo VI, procedendo dalla lettura del Papiro della Biblioteca di Giessen 40 col. I., tenta di approfondire lo studio dei problemi posti dall’integrazione chōr[ís] tōn [de]deitikíōn, strettamente connesso, peraltro, con quello della definizione della platea degli eventuali esclusi dal beneficio imperiale. Il cap. VII (Diritto imperiale e diritti locali), una volta definito il quadro entro il quale l’impiego dei paradigmi negoziali romani si impose nella prassi di molte province già prima dell’emanazione della constitutio Antoniniana, si rivolge ai conflitti che, dopo il 212, ingenerò il sovrapporsi di regole giuridiche tra loro antitetiche. Se in alcuni casi il rispetto delle antiche consuetudini locali era del tutto indifferente al potere romano, in altre occasioni, viceversa, esse furono aspramente condannate: così, ad esempio, fu il caso della bigamia e dei matrimoni incestuosi e, in particolare, dei matrimoni adelfici particolarmente diffusi in Egitto. Nonostante la documentazione sia di gran lunga meno abbondante, rispetto alla cospicua messe di dati fornita, nella parte orientale dell’Impero, soprattutto dai papiri egiziani, si è anche tentato di lanciare uno sguardo alle regioni più periferiche dell’Occidente romano (la Gallia renana, l’Armorica, la Bretagna), nelle quali si può constatare l’impiego, come sistema di composizione delle liti, dell’ordalia (e, in particolare, del iudicium aenei o del iudicium aquae ferventis), che non può considerarsi, pertanto, un portato delle invasioni germaniche. Il nucleo centrale del cap. VIII coincide con un confronto, alla luce delle elaborazioni di James Bryce, tra nozione romana e nozione britannica di cittadinanza imperiale.

La cittadinanza romana in età imperiale (secoli I - III d.C.). Una sintesi

MAROTTA, VALERIO
2009-01-01

Abstract

Questo volume, in base a una rassegna delle principali fonti e delle più importanti interpretazioni storiografiche, ripercorre la storia della civitas Romana e della sua diffusione nei secoli I – III d.C. Particolare rilievo è attribuito al tema della creazione di una cittadinanza imperiale comune e a quello – peraltro connesso al primo – del destino dei diritti locali dopo la constitutio Antoniniana. Nel I capitolo (e, in specie nel § 2 «Libertà e cittadinanza») assume particolare importanza lo studio dell’elaborazione – di Tertulliano e di Lattanzio – della nozione di libertà religiosa come libertà della coscienza individuale. Nella visione di Tertulliano, recuperata, poi, da Lattanzio e dall’estensore del cosiddetto Editto di Milano, la libertà religiosa non lede i diritti di terze persone e quindi è conforme a uno dei praecepta iuris: alterum non laedere. Si può constatare, di conseguenza, la capacità di elaborare - soprattutto sul piano teorico (ma con sporadiche ricadute anche sul piano dell’elaborazione normativa, come attestano le tracce del cosiddetto Editto di Milano) – ‘diritti di libertà’ alla luce dei principii del ‘giusnaturalismo stoico’. Nel II capitolo si pone in luce come la nozione di civitas in quanto comunità di diritto, ovvero in quanto statuto comune a tutti i cittadini – compiutamente definita da Cicerone – sviluppi premesse già implicite nei filosofi stoici di III e di II secolo a.C.: il che equivale a dire che nelle filosofie d’età ellenistica proprio come in Cicerone, si definisce una nozione di politeía (/civitas) senza dubbio già molto distante da quella di Aristotele, per il quale la cittadinanza era, prima d’ogni altra cosa, un quadro di partecipazione in cui ciascuno cittadino doveva avere, allo stesso tempo, le qualità morali e intellettuali per comandare ed essere comandato. Nel § 2 di questo capitolo si affrontano i più importanti problemi storiografici sollevati dallo studio delle guarentigie attribuite ai cives Romani di età imperiale e dall’emergere della dicotomia tra honestiores e humiliores. Nel III capitolo si prendono in esame le principali vie di accesso alla civitas: nascita di un vulgo conceptus da madre romana, concepimento in iustae nuptiae, manomissione, reclutamento nell’esercito, concessioni viritane. Speciale rilievo è attribuito allo studio della Tabula Banasitana e degli elementi che emergono, alla luce dell’epistolario tra Traiano e Plinio, dalla vicenda dello iatraliptes Harpocras. All’Egitto e alla peculiare condizione dei suoi abitanti sono dedicati infine alcuni specifici approfondimenti. Nel IV capitolo, ridiscusso il problema della doppia cittadinanza, in base ai dati forniti dalla cosiddetta epistola di Marco Aurelio agli Ateniesi, nel § 2 si prende in esame l’effettivo rilievo della nozione Roma communis patria. Il Cap. V, dedicato all’esame delle testimonianze attinenti alla constitutio Antoniniana, si sofferma, in particolare, sulla testimonianza delle Storie di Cassio Dione e su di un frammento del commentario edittale di Ulpiano. A tal riguardo si è ridiscusso nel dettaglio il problema della collocazione palingenetica di D. 1.5.17 (Ulp. 22 ad edictum). Il capitolo VI, procedendo dalla lettura del Papiro della Biblioteca di Giessen 40 col. I., tenta di approfondire lo studio dei problemi posti dall’integrazione chōr[ís] tōn [de]deitikíōn, strettamente connesso, peraltro, con quello della definizione della platea degli eventuali esclusi dal beneficio imperiale. Il cap. VII (Diritto imperiale e diritti locali), una volta definito il quadro entro il quale l’impiego dei paradigmi negoziali romani si impose nella prassi di molte province già prima dell’emanazione della constitutio Antoniniana, si rivolge ai conflitti che, dopo il 212, ingenerò il sovrapporsi di regole giuridiche tra loro antitetiche. Se in alcuni casi il rispetto delle antiche consuetudini locali era del tutto indifferente al potere romano, in altre occasioni, viceversa, esse furono aspramente condannate: così, ad esempio, fu il caso della bigamia e dei matrimoni incestuosi e, in particolare, dei matrimoni adelfici particolarmente diffusi in Egitto. Nonostante la documentazione sia di gran lunga meno abbondante, rispetto alla cospicua messe di dati fornita, nella parte orientale dell’Impero, soprattutto dai papiri egiziani, si è anche tentato di lanciare uno sguardo alle regioni più periferiche dell’Occidente romano (la Gallia renana, l’Armorica, la Bretagna), nelle quali si può constatare l’impiego, come sistema di composizione delle liti, dell’ordalia (e, in particolare, del iudicium aenei o del iudicium aquae ferventis), che non può considerarsi, pertanto, un portato delle invasioni germaniche. Il nucleo centrale del cap. VIII coincide con un confronto, alla luce delle elaborazioni di James Bryce, tra nozione romana e nozione britannica di cittadinanza imperiale.
2009
9788834896044
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/203232
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