Contro l'opinione (basata soprattutto su un saggio di Giovanni Rotondi del 1910) si sostiene il notevole rilievo della lex publica anche nel diritto privato romano. I risultati si possono riassumere in questi punti: a) i Romani erano convinti che, anche nel diritto privato, le leges publicae fossero numerose, anzi rappresentassero una immensa diffusaque copia, accumulatasi a partire dalle Dodici Tavole (§ 2); b) l’affermazione di Rotondi, secondo cui le leggi di diritto privato “non arrivano alla trentina” si basa su due presupposti criticabili. In primo luogo, restringe in modo ingiustificato la categoria di leggi di diritto privato, escludendone molte che le fonti giuridiche mostrano di ritenere tali (§ 3); c) in secondo luogo, e soprattutto, non tiene conto che le nostre informazioni sulla esistenza e il contenuto delle leges publicae sono estremamente lacunose, come è dimostrato dalla verifica condotta da J.-L. Ferrary su Livio e, nella presente ricerca, sulle leges epigrafiche (§ 3); d) le informazioni sulle leges publicae di diritto privato sono particolarmente difettose, perché scarsamente considerate dagli storici e dagli altri autori non giuristi (§ 4); e) il problema più grave è che gli scritti dei giuristi, da cui avremmo potuto ricevere una informazione esauriente, sono stati espressamente depurati della maggior parte dei riferimenti alle leges da parte dei commissari giustinianei all’atto di accoglierne i frammenti nel Digesto (§ 5); f) la “delegificazione” del Digesto fa apparire – con un’illusione ottica in cui è caduto Rotondi e chi lo ha seguito – che le Institutiones di Gaio siano ricche di informazioni sulle leges publicae. Le Institutiones non offrono, dichiaratamente, che un’informazione esemplificativa sulle leges publicae (§ 5); g) l’ampia presenza delle leges nelle opere della giurisprudenza romana – oltre che affiorare nella documentazione pervenuta fuori del Digesto e specialmente nei papiri - è rimasta impressa nella struttura palingenetica delle opere che seguono l’ordine dei Digesta¸ la cui seconda parte è dedicata a leges e senatusconsulta (es. Giuliano ll. 59-90) (§ 6); h) l’importanza che avevano assunto le leges publicae nel quadro dell’interpretatio si manifesta anche nel ricorso ad esse come repertorio argomentativo da parte dei giuristi (§ 6). Non è compito di questa indagine svolgere le implicazioni di questi accertamenti. Di sicuro, nell’escludere le leges publicae dai frammenti accolti nel Digesto, i commissari giustinianei hanno celato un profilo importante dell’esperienza romana, così come ne hanno tenuto a lungo in ombra altri aspetti costitutivi, dal formalismo arcaico al ruolo centrale del processo. Nel caso delle leges, a rallentare la presa di coscienza ha contribuito l’ideologia storicistica degli interpreti moderni (§ 7).

Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi

MANTOVANI, DARIO GIUSEPPE
2012-01-01

Abstract

Contro l'opinione (basata soprattutto su un saggio di Giovanni Rotondi del 1910) si sostiene il notevole rilievo della lex publica anche nel diritto privato romano. I risultati si possono riassumere in questi punti: a) i Romani erano convinti che, anche nel diritto privato, le leges publicae fossero numerose, anzi rappresentassero una immensa diffusaque copia, accumulatasi a partire dalle Dodici Tavole (§ 2); b) l’affermazione di Rotondi, secondo cui le leggi di diritto privato “non arrivano alla trentina” si basa su due presupposti criticabili. In primo luogo, restringe in modo ingiustificato la categoria di leggi di diritto privato, escludendone molte che le fonti giuridiche mostrano di ritenere tali (§ 3); c) in secondo luogo, e soprattutto, non tiene conto che le nostre informazioni sulla esistenza e il contenuto delle leges publicae sono estremamente lacunose, come è dimostrato dalla verifica condotta da J.-L. Ferrary su Livio e, nella presente ricerca, sulle leges epigrafiche (§ 3); d) le informazioni sulle leges publicae di diritto privato sono particolarmente difettose, perché scarsamente considerate dagli storici e dagli altri autori non giuristi (§ 4); e) il problema più grave è che gli scritti dei giuristi, da cui avremmo potuto ricevere una informazione esauriente, sono stati espressamente depurati della maggior parte dei riferimenti alle leges da parte dei commissari giustinianei all’atto di accoglierne i frammenti nel Digesto (§ 5); f) la “delegificazione” del Digesto fa apparire – con un’illusione ottica in cui è caduto Rotondi e chi lo ha seguito – che le Institutiones di Gaio siano ricche di informazioni sulle leges publicae. Le Institutiones non offrono, dichiaratamente, che un’informazione esemplificativa sulle leges publicae (§ 5); g) l’ampia presenza delle leges nelle opere della giurisprudenza romana – oltre che affiorare nella documentazione pervenuta fuori del Digesto e specialmente nei papiri - è rimasta impressa nella struttura palingenetica delle opere che seguono l’ordine dei Digesta¸ la cui seconda parte è dedicata a leges e senatusconsulta (es. Giuliano ll. 59-90) (§ 6); h) l’importanza che avevano assunto le leges publicae nel quadro dell’interpretatio si manifesta anche nel ricorso ad esse come repertorio argomentativo da parte dei giuristi (§ 6). Non è compito di questa indagine svolgere le implicazioni di questi accertamenti. Di sicuro, nell’escludere le leges publicae dai frammenti accolti nel Digesto, i commissari giustinianei hanno celato un profilo importante dell’esperienza romana, così come ne hanno tenuto a lungo in ombra altri aspetti costitutivi, dal formalismo arcaico al ruolo centrale del processo. Nel caso delle leges, a rallentare la presa di coscienza ha contribuito l’ideologia storicistica degli interpreti moderni (§ 7).
2012
9788861980679
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/373520
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