La valutazione della responsabilità professionale in Medicina Legale è un tema assai difficile da affrontare, sia perché il sapere scientifico è diventato, con il tempo, sempre più esteso e complesso, sia perché il pensiero giuridico sembra talora richiedere non solo il rispetto di un’obbligazione di mezzi, ma anche il conseguimento di risultati ritenuti impliciti alla prestazione specialistica. La materia risulta ancor più dibattuta in psichiatria, soprattutto laddove l’attività dello specialista viene ad essere chiamata in causa nell’ipotesi di una mancata prevenzione di quelle condotte violente che un paziente in terapia ha agito su di sé e/o sugli altri. In tal caso, il problema medico-valutativo è quello di dimostrare, o di smentire, l’esistenza di un nesso di causalità, o di concausalità, tra l’operato del curante e la condotta aggressiva del soggetto in cura. Infatti, laddove sia comprovata la sussistenza di questa tipologia di rapporto, a seconda del fatto che il paziente abbia agito la sua aggressività contro gli altri, oppure contro di sé, lo psichiatria può essere chiamato o a rispondere in concorso dei reati commessi dal soggetto, o a render comunque conto delle conseguenze provocate al malato dal mancato rispetto del suo diritto alla tutela della salute. In quest’ottica, si deve dunque valutare fino a che punto, con ragionevole certezza, il comportamento violento del paziente non si sarebbe verificato, se, in un particolare momento del suo decorso clinico-terapeutico, fosse stata attivata un’adeguata prevenzione da parte dello specialista che lo aveva in carico. È assodato che in psichiatria l’atto medico, in ogni suo momento – da quello della diagnosi, a quello della prognosi, da quello della terapia a quello della profilassi – per la natura stessa del disturbo mentale si pone sempre al limite tra la dimensione della cura e quella del controllo sociale, per cui ogni scelta deve sempre fare i conti con i rischi tanto di un comportamento astensionistico, quanto di una condotta interventista. Quindi, nell’esaminare i plausibili profili di responsabilità professionale in caso di mancata prevenzione della distruttività del paziente psichiatrico, le aree di maggior criticità sono quelle della prevedibilità e della prevenibilità dell’atto violento. Esemplificativa, al riguardo, appare la casistica illustrata nel presente contributo, in base alla quale è corretto sostenere che la ricerca, la decifrazione e la ricostruzione del significato dell’agito aggressivo del paziente, nel contesto della sua storia clinica, della sua relazione con lo specialista e del suo rapporto con la vittima, rappresentano momenti assolutamente irrinunciabili per capire se ed in quale misura la violenza agita fosse effettivamente prevedibile e, perciò, prevenibile. In tal senso, si auspica il costante ricorso ad un approccio ermeneutico da parte dello psichiatra nella sua interazione con il soggetto, perché tale modalità conoscitiva permette, sul piano clinico, la realistica valutazione del rischio di aggressività in chiave anche terapeutica e profilattica e, su quello medico-legale, la costruzione di un rapporto medico-paziente che garantisca tanto i diritti, quanto i doveri di ciascun membro della relazione.

La responsabilità professionale dello psichiatra per i reati violenti commessi dal paziente: riflessioni su una casistica peritale

BARBIERI, CRISTIANO;DANESINO, PAOLO
2012-01-01

Abstract

La valutazione della responsabilità professionale in Medicina Legale è un tema assai difficile da affrontare, sia perché il sapere scientifico è diventato, con il tempo, sempre più esteso e complesso, sia perché il pensiero giuridico sembra talora richiedere non solo il rispetto di un’obbligazione di mezzi, ma anche il conseguimento di risultati ritenuti impliciti alla prestazione specialistica. La materia risulta ancor più dibattuta in psichiatria, soprattutto laddove l’attività dello specialista viene ad essere chiamata in causa nell’ipotesi di una mancata prevenzione di quelle condotte violente che un paziente in terapia ha agito su di sé e/o sugli altri. In tal caso, il problema medico-valutativo è quello di dimostrare, o di smentire, l’esistenza di un nesso di causalità, o di concausalità, tra l’operato del curante e la condotta aggressiva del soggetto in cura. Infatti, laddove sia comprovata la sussistenza di questa tipologia di rapporto, a seconda del fatto che il paziente abbia agito la sua aggressività contro gli altri, oppure contro di sé, lo psichiatria può essere chiamato o a rispondere in concorso dei reati commessi dal soggetto, o a render comunque conto delle conseguenze provocate al malato dal mancato rispetto del suo diritto alla tutela della salute. In quest’ottica, si deve dunque valutare fino a che punto, con ragionevole certezza, il comportamento violento del paziente non si sarebbe verificato, se, in un particolare momento del suo decorso clinico-terapeutico, fosse stata attivata un’adeguata prevenzione da parte dello specialista che lo aveva in carico. È assodato che in psichiatria l’atto medico, in ogni suo momento – da quello della diagnosi, a quello della prognosi, da quello della terapia a quello della profilassi – per la natura stessa del disturbo mentale si pone sempre al limite tra la dimensione della cura e quella del controllo sociale, per cui ogni scelta deve sempre fare i conti con i rischi tanto di un comportamento astensionistico, quanto di una condotta interventista. Quindi, nell’esaminare i plausibili profili di responsabilità professionale in caso di mancata prevenzione della distruttività del paziente psichiatrico, le aree di maggior criticità sono quelle della prevedibilità e della prevenibilità dell’atto violento. Esemplificativa, al riguardo, appare la casistica illustrata nel presente contributo, in base alla quale è corretto sostenere che la ricerca, la decifrazione e la ricostruzione del significato dell’agito aggressivo del paziente, nel contesto della sua storia clinica, della sua relazione con lo specialista e del suo rapporto con la vittima, rappresentano momenti assolutamente irrinunciabili per capire se ed in quale misura la violenza agita fosse effettivamente prevedibile e, perciò, prevenibile. In tal senso, si auspica il costante ricorso ad un approccio ermeneutico da parte dello psichiatra nella sua interazione con il soggetto, perché tale modalità conoscitiva permette, sul piano clinico, la realistica valutazione del rischio di aggressività in chiave anche terapeutica e profilattica e, su quello medico-legale, la costruzione di un rapporto medico-paziente che garantisca tanto i diritti, quanto i doveri di ciascun membro della relazione.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11571/856651
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